C’era una volta il congresso di partito. Quel rituale ormai obsoleto attraverso cui gli iscritti sceglievano la linea politica del proprio schieramento ed anche il segretario che avrebbe dovuto portarla avanti. In teoria, ovviamente, perché nella pratica erano le correnti a spostare le truppe cammellate, ad accordarsi in segreto, a cambiare alleanze interne per arrivare alla scelta del segretario politico che, una volta eletto, avrebbe fatto di testa sua.
Adesso, con poche eccezioni (Pd), il congresso non è più di moda. I leader, soprattutto nel centrodestra, sono unti dal Signore e restano in carica a vita, a meno di eventi catastrofici. In Lega non è bastato l’ictus per fermare Bossi, si sono dovuti aggiungere gli scandali per arrivare alla sostituzione. A destra si devono creare nuovi partiti per riuscire a cambiare segretario. Più facile una scissione che un congresso vero, per tesi e proposte. Eppure persino nel primo Msi si riusciva a garantire un’alternanza. Ora non più.
D’altronde il modello di riferimento è Berlusconi. Dunque la linea si decide ad Arcore ed il partito si adegua. Mentre il leader non può essere messo in dubbio a prescindere. “Tu sei Pietro e su questa pietra.. edificherò il mio partito e le forze dei komunisti non prevarranno”.
Il risultato del mancato ricambio è la povertà di idee, l’assenza di creatività, la carenza di analisi. Ogni tanto spunta un nuovo slogan e viene ripetuto all’infinito, sino a diventare fastidioso, oggetto di battute più o meno grevi. Dalle segreterie politiche a Lercio, un percorso ripetuto ogni volta.
Così diventano quasi oggetto di studio storico gli epici scontri dei partiti “veri” nei primi decenni dopo la guerra. I delegati si prendevano a schiaffi, volavano le sedie nel confronto tra tesi diverse, tra percorsi non condivisi. Però alla fine uscivano progetti, idee, analisi, strategie. Non fotografie mentre si addentavano panini. E gli elettori votavano partiti ed idee, non personaggi e slogan creati per durare pochi giorni.