“Sai, sto seguendo una cosa…” mi dice al telefono. “Una famiglia di mormoni. Di quelli più… estremi. Vivono in una grande Casa immersa per molti mesi nella neve. Con la stalla e gli animali. Sei o sette figli, che girano liberi. Senza preoccuparsi della sicurezza, senza paranoie….e, pensa…una bambina di cinque anni aiutava la madre in cucina…. pelava le patate, stava attenta ai fornelli… cose così….- una pausa di silenzio – impensabile da noi. Nel nostro mondo. Con i nostri figli…”
La sua voce è allegra. Ma non priva di un velo di …. nostalgia.
Nostalgia. Il dolore, il desiderio struggente del ritorno. Di tornare…a casa. Come Ulisse. Come gli eroi sopravvissuti alla Guerra di Troia. I loro “Nostoi” costituivano una, lunga, lunghissima tradizione di canti che gli aedi – quelli che i filologi chiamano “omeridi” – portavano di corte in corte, di città in città, nella Grecia arcaica. Ci è giunto solo il Nòstos di Odisseo, Re di Itaca. Perché qualcuno, infine, vi pose mano. E lo vergò su carta. È l’Odissea.
Degli altri ritorni, degli altri Nòstoi, sappiamo solo attraverso i tragici.
Sì, d’accordo….ma che c’entra la nostalgia con sta storia dei mormoni?
Vedete. Esiste la nostalgia per il proprio passato, la casa, la terra natia…ed esiste un’altra nostalgia. Più profonda. Per qualcosa che non si è vissuto direttamente, ma solo sentito raccontare. E che, in fondo, ci appartiene. È la nostra storia. Il nostro retaggio.
Mia nonna. Mia nonna paterna. Era meridionale. Di un paesino dell’alto Cilento. Alle pendici degli Alburni. Postiglione, si chiamava. Forse perché lungo la strada che lo fiancheggiava, proprio lì sotto, vi era una Stazione di Posta. Per il cambio dei cavalli. Ma il paese restava, comunque, più in alto. Una specie di rocca, costruita da abitanti fuggiti da Paestum, a causa delle incursioni saracene.
Comunque era un piccolo borgo. E lo è ancora. Meno di 2000 abitanti. Lo visitai una sola volta. Con mio padre, oltre cinquant’anni fa. Era molto… arcaico. La gente preparava ancora in casa la passata di pomodoro. E siccome era settembre, il profumo invadeva le strade.
Comunque, la nonna veniva da lì. E si era portata dietro le tradizioni culinarie di famiglia. I gusti e i sapori. Quelli dell’infanzia, i primi. Che formano per sempre il tuo palato. Ed anche la tua personalità. Perché il cibo e i profumi della prima parte della vita, ti educano. Ovvero ti fanno crescere, non solo fisicamente.
La nonna cucinava bene. Sempre certi piatti, che erano, appunto, tradizione. Ad esempio, in occasioni festive, preparava i fusilli. Quelli lunghi. E li faceva lei. A casa e a mano.
Sulla spianata di marmo del grande tavolo di cucina – perché allora le cucine erano grandi e i tavoli ampi ripiani di lavoro… altro che angolo cottura… – preparava l’impasto. Poi, lo stendeva con il mattarello di legno. E infine, con un ferro d’ombrello tutto attorto, cominciava a…cavarli.
Cavare, cavarli… espressione che usava spesso. Cavava, con le dita, anche gli gnocchi. Che erano piccolissimi. E si chiamavano, appunto, cavatielli.
Ma cavare i fusilli era altro lavoro. Difficile. Ci voleva mano ferma e sicura, per arrotolare intorno al ferro l’impasto, e poi estrarlo senza che si appiccasse. Eppure lei andava velocissima. Neppure seguiva con gli occhi ciò che faceva la sua mano. Parlava, ascoltava la radio….la mano, le mani lavoravano da sole.
Aveva imparato da bambina, mi disse. Sua nonna, la metteva lì in cucina e le insegnava come fare. Non aveva neppure cinque anni…
Mi torna in mente, e allora penso che anche noi, un tempo, eravamo così. Come quella famiglia di mormoni… sempre che sia autentica. Perché alle storie che girano su Internet è sempre doveroso fare la tara. E chiedersi se …ma lei ci crede. Le piace e la rende felice. E voglio crederci anch’io. Perché mi fa pensare al nostro passato. Quello che non ho vissuto. Ma che è nella mia memoria familiare. E nella mia genetica probabilmente. Sempre che si debba credere alla genetica…