“Oh Postumo, Postumo, irrefrenabili fuggono gli anni”…
Niente da fare… nessuno come Orazio ha saputo esprimere, in sintesi poetica, la sensazione del tempo che fugge. Come sabbia tra le mani, per richiamare una metafora ormai abusata.
Perché gli anni fuggono davvero. Irrefrenati e irrefrenabili. E tu ti ritrovi, non sai come, con i capelli imbiancati, come il Soratte in inverno… dice sempre il poeta di Venosa, ai cui tempi gli inverni erano più freddi, e nevosi, dei nostri.

E se fuggono gli anni, immaginiamoci i mesi, i giorni… le ore.
È una sensazione, quella della volatilità del tempo, che si accentua sempre più nello scorrere della vita. Tutti ricorderanno gli anni delle scuole elementari. Sembravano lunghissimi. Interminabili. Poi, man mano, tutto è diventato più veloce. L’università trascorsa in un soffio. E di lì… il precipizio.
Storie vecchie. Già raccontate da tanti. Che spiegano, però, quella sorta di strana ossessione dell’uomo moderno per il misurare il tempo. O, se preferite, per gli orologi.
Orologi sempre più sofisticati, precisi, eleganti, preziosi… perché sono diventati una sorta di status symbol, come dicono quelli che fingono di sapere l’inglese. Ovvero di simbolo del tuo stato sociale, delle tue possibilità economiche… della tua vanità di apparire. Di fare, come dicono in Emilia se non erro, lo sborone…
E più costano, più fanno figura, più vengono desiderati. Ambiti. Quasi che, inconsciamente, si potesse pensare che il tempo possa essere diverso se scandito da un orologio di marca. Che le ore non fuggissero più con la stessa velocità… irrefrenabile.
Illusioni, naturalmente. Specchietti per le allodole. Perché tutti gli orologi segnano lo stesso tempo. E il suo scorrere alla stessa velocità.

Tuttavia ben altra cosa è la nostra percezione del tempo. Perché, se riusciamo ad astrarci dalla ossessione per le ore precise e i minuti, e i secondi… se stacchiamo gli occhi dalle lancette, o meglio, oggi, dallo scorrere dei numeri sul quadrante digitale, possiamo accorgerci di una cosa. Una cosa semplice, alla fin fine… che quella delle ore che scorrono è, in fondo, una illusione in cui ci siamo imprigionati. Per una sorta di mania razionale di misurare e pesare tutto. Anche ciò che materiale non è. Come, appunto, il tempo.
L’uomo antico conosceva l’alba e il tramonto. E osservava lo scorrere del sole. Imparando a misurarlo con le Meridiane. I, cosiddetti, orologi solari.
Per la notte era, inevitabilmente, diverso. E i Romani, quelli veri, usavano il ritmo dei turni di guardia negli accampamenti. Le Vigilie.
Poi c’erano gli orologi a polvere, le clessidre. E quelli ad acqua. Ernst Jünger ha dedicato agli orologi uno dei suoi libri più profondi e suggestivi. Una meditazione ardua sugli strumenti, e l’ossessione, per misurare il tempo.
Ma una clessidra serve a misurare un tempo relativo. Non assoluto. Il tempo in cui si doveva compiere un’opera, ad esempio. Ed era, non a caso, uno strumento degli alchimisti. Il tempo di fusione di un metallo.. il passaggio dal solido al liquido. E viceversa. Solve et coagula.
In alcune, famose, tele di Salvador Dalì, gli orologi si… liquefano. Deformati, si sciolgono nella luce di uno strano, o estraneo, Sole.
È la percezione della dissolvenza del tempo. Il tempo cronologico. Il Kronos dei greci, nome che ha la stessa radice di corvo. Il volatile che divora i cadaveri. Ma dissolvendosi, anzi liquefacendosi, questo tempo rivela la sua illusorietà. Ed emergono altre dimensioni del tempo. Quella che sempre i greci – civiltà la cui lingua possiede ogni sfumatura – chiamavano Kairòs. Il tempo libero… ma nel senso di tempo sospeso. E che, quindi non fugge, ma si dilata secondo il nostro piacere. La nostra volontà.
E infine l’Aiòn. Il tempo perpetuo. Che non scorre. Che non ha inizio e non ha fine. Dove tutto è. Nulla diviene.

Un koan zen invita a meditare fissando una clessidra. La sabbia che cade. Inesorabile. Quando vedrai la sabbia che risale… allora avrai raggiunto il Satori.. L’illuminazione. Perché non sarai più prigioniero dell’illusione del tempo.