Dice Bernardo Soares che un paesaggio esiste perché io lo immagino. E se lo immagino, esiste.
Me lo ricorda Brunello di Cusatis, grande amico, grande lusitanista. E, soprattutto, il massimo interprete italiano delle opere e del pensiero di Fernando Pessoa.
Perché Soares è uno degli eteronimi del genio di Lisbona. Un eteronimo – come tutti gli altri – dotato di vita e personalità proprie.. Anche se Bernardo mantiene alcuni caratteri propri di Pessoa. È un uomo riservato. Fa il contabile in una ditta di tessuti, e guarda al mondo dalla finestra del suo ufficio. Da quel guardare, nasce “Il libro dell’inquietudene”. Un capolavoro.
Comunque, non di questo voglio parlare. Ma di tale concezione del paesaggio. Che è strettamente connessa al mondo interiore. All’immaginazione. Un paesaggio visto da una finestra dell’anima. E che si apre sull’anima stessa. Perché dietro alle parole di Bernardo Soares si intravvede un tradizione filosofica ben precisa. Schopenhauer, certo, con quel Mondo come volontà e rappresentazione che viene sempre citato, anche se non sempre a proposito. E che, ad esser sincero, anch’io uso e abuso, spiegando la letteratura del, cosiddetto, decadentismo. Svevo, D’Annunzio… Pirandello soprattutto. Suscitando spesso l’ululato di disperazione del Boro e del suo seguito di coatti…
In verità, sarebbe da andare, ben oltre, oltre il filosofo tedesco. A quelle che, in parte almeno, furono tra le sue fonti di ispirazione. Da cui trasse suggestioni e anche uno specifico lessico. Perché il termine Maya, che utilizza per indicare l’illusione della (cosiddetta) realtà oggettiva, viene dalla antica India. Dal pensiero indiano, il Vedanta, le Upanisad, che Hegel negava avesse valenza filosofica. Ma, appunto, Schopenhauer partiva dalla critica ad Hegel.
Pessoa conosceva bene la tradizione Indiana. E, nel complesso, tutto ciò che, troppo facilmente viene derubricato come orientalismo e/o occultismo. E quello che sapeva Pessoa, lo sapeva anche l’inquieto Bernardo Soares.
Di lì, quella finestra che si apre su paesaggi sempre, e comunque, interiori.
Interiori. Immaginati. Ma non per questo irreali. Anzi.
La relazione tra la nostra capacità imaginale, la potenza del nostro immaginare, è stretta. Biunivoca. Ovvero noi vediamo ciò che siamo in grado di immaginare. E ciò che immaginiamo è determinato da ciò che è. Un paradosso degno degli antichi stoici. Meglio ancora dei Maestri zen.
Immaginare non è semplice fantasticare. È un potere magico in noi. E insito nella natura delle cose. Perché quello che Bernardo Soares ci vuole dire è che noi non siamo altro dal paesaggio che ci circonda. Non ne siamo estranei. Alieni.
Noi siamo parte integrante del paesaggio che vediamo. Come intuirono Monet e gli altri maestri dell’Impressionismo. Ma, al contempo, il paesaggio è una nostra creazione. Una proiezione del nostro mondo interiore. Come, tanto per fare un esempio, nel realismo magico di Dalì. E forse ancor più in quello di Sciltian.
Pensiamoci. Una passeggiata tra le montagne. Nel silenzio delle abetaie e tra le rocce scintillanti al sole. L’aria tersa e pura. Certo, ha un’influenza su di noi evoca il senso delle altezze. Ci libera da tensioni. Dalle scorie della quotidianità. Eppure oggi, su un sentiero di montagna, a oltre 1500 metri, nella solitudine e nel silenzio, puoi incrociare una persona – donna, uomo, poco conta, ma l’esperienza è reale – che avanza guardinga con le mascherina sulla bocca. E che ti guarda con paura. Perché tu ne sei privo. Non do giudizi sulla salute mentale della persona in questione. Non sono uno psichiatra. E neppure voglio parlare per l’ennesima volta di questa emergenza pandemia. Solo… pongo una domanda. Che paesaggio vede la persona in questione?
Certo diverso da quello che vedo io, pure nello stesso momento. Le vette all’orizzonte. I mughi che profumano l’aria. Il canto di un gallo cedrone nascosto fra i rami.. Lo vede? Lo ode o percepisce in qualche modo?
Sinceramente ne dubito. La sua capacità di percepire è costretta nella gabbia di una prigione interiore. Da dietro quelle sbarre, l’unico paesaggio che può osservare è quello delle sue paure.. O meglio delle paure collettive. Un incubo reso, però, reale da una sorta di possente magia. Una magia oscura, ovviamente.
E facciamo anche l’esempio opposto. L’antitesi è sempre necessaria per giungere ad una qualsivoglia sintesi.
La Città in pieno lockdown. La voce degli speaker che, dai media, ripete, ossessiva, la conta dei morti. La necessità di uscire il meno possibile. Portare la mascherina! Non avvicinarsi! Non assembrarsi!
Un silenzio e un deserto dominati dal terrore.
E , poi, un ragazzino che gioca in un giardino pubblico. Incurante dei nastri gialli e neri che lo cintano. Che saluta allegramente le persone, anche se queste si scansano. O, peggio, inveiscono contro la minaccia per la loro salute, che lui, con la sua allegrezza, rappresenta.
E gioca con un cane di passaggio, e ride felice… Che paesaggio vede? Non certo la città della paura. Eppure, quello che vede lui non è meno reale. Anzi…
Perché la sua mente non è prigioniera dietro quelle sbarre. E può vedere… Altro. Su di lui la magia oscura non ha potere.
Tutto qui. Quattro osservazioni, o meglio quattro pensieri buttati giù alla rinfusa. Leggendo Bernardo Soares. Che era stato sognato da Fernando Pessoa. E che, a sua volta, sognava Pessoa e le sue, splendide e inquietanti, poesie…