Nicola Tudisco, Paolo Sarpi. La fine del tempo fisso e la legittimazione del moderno, Europa Edizioni, Roma 2021.
Nicola Tudisco, che tutti ricordiamo come docente e dirigente scolastico, una volta esaurito il tempo dei negotia, non ha dimenticato la grande lezione ciceroniana, dedicando il suo tempo libero, quello che i Latini chiamavano otium, «alle cure dello spirito», come usava dire in passato, ovvero coltivando e approfondendo – come diremmo oggi – i propri interessi culturali. Andare in pensione, per lui come per l’Arpinate, non ha significato tirare i remi in barca, bensì tamquam in portum confugere non inertiae, neque desidiae, sed otii moderati et honesti («cercare rifugio, come in un porto, non nell’inerzia inoperosa, ma in moderate e onorevoli occupazioni»). È, questo, un modo di continuare, in altre forme e con altri mezzi, la propria missione; e lo condividiamo appieno.
Il primo frutto di questa nuova stagione è uno studio articolato e scrupoloso su Paolo Sarpi, il frate servita, teologo e giurista insigne, che, oltre ad essere amico di Galileo, fu anche uno dei più dotti matematici del suo tempo, studioso di anatomia e fisiologia, in contatto con vari intellettuali d’Italia e d’Europa, ivi compresi alcuni luterani e calvinisti. Il suo nome resta nondimeno legato alla difesa intransigente delle ragioni giurisdizionali della Repubblica veneziana, la sua patria, contro le indebite ingerenze della Santa Sede, e a quel capolavoro di storia etico-politica che è la sua corposa Istoria del Concilio Tridentino. Tutto ciò gli guadagnò tra i laicisti la fama di campione del libero pensiero anticlericale, mentre dal campo opposto gli vennero mosse accuse di insensibilità religiosa e di adesione al luteranesimo. Accuse sostanzialmente infondate, quantunque a volte, nel fervore della polemica, gli capitasse di ragionare più da politico che da religioso e di cadere, quindi, nello stesso errore che imputava agli avversari, e in particolare al papa, di servirsi della religione come instrumentum regni.
Essenzialmente politico, e pertanto tendenzioso, è pure il suo atteggiamento nei riguardi del Concilio di Trento, che egli, abituato a vedere intrighi e macchinazioni anche dietro le più alte idealità religiose, considera solo una trama conflittuale di interessi mondani, di egoismi e di gelosie: una vera e propria «Iliade del secolo». Che aggravò la frattura tra cattolici e protestanti, rendendo da un lato «le discordie irreconciliabili» e sancendo dall’altro l’«eccesso illimitato» del potere papale. Contro quelle che erano le più vive aspirazioni del Sarpi, vale a dire un ritorno alla Chiesa delle origini, scevra d’ogni ambizione temporalistica e ligia al messaggio evangelico, e l’affidamento al Concilio dei vescovi del supremo governo della Chiesa, cioè della comunità dei credenti che dovrebbero eleggerli.
Va detto che la sua Istoria, al pari degli altri suoi scritti e della sua nutrita corrispondenza epistolare che Tudisco passa diligentemente in rassegna, si distingue nel panorama della coeva storiografia per il suo stile incisivo, geometrico, tutto calato nelle cose, tanto da essere stato definito «galileiano»; e per l’intimo fuoco della passione che la anima, risolvendosi spesso in una delusa amarezza morale. Ma, fors’anche perché gli era preclusa la consultazione dei ricchissimi archivi vaticani, gli sfugge la portata della grande riforma disciplinare del clero e dell’opera di chiarificazione dogmatica sollecitata dalle tesi dei riformatori protestanti. Quanto, insomma, ha oggi indotto una parte degli studiosi a parlare non più di «Controriforma», bensì di «Riforma cattolica».
Ciò non toglie, comunque, che l’operazione condotta da Tudisco sia del tutto corretta, e meritevole per la puntualità con cui, dialogando con gli studiosi che se ne sono occupati, analizza e ricostruisce sia la biografia sia la produzione letteraria del Sarpi. Corretto, in particolare, è l’assunto di fondo del volume, inteso a porre – sulla falsariga di Hans Blumenberg e del suo libro su La legittimità dell’età moderna – la figura del frate servita nel novero dei “fondatori” della modernità, insieme a Machiavelli, Bacone, Copernico, Galilei, Cartesio, Newton, ma anche – se vogliamo – Bruno, Campanella e i riformatori protestanti. La rivoluzione scientifica, che porta a una netta distinzione tra verità di fede e verità di ragione, è il vero discrimine tra il «tempo fisso» della teologia medievale (che si basa, in ultima analisi, sulla rivelazione) e il «tempo secolare» dell’era nuova. Con la conseguenza che l’agire umano conquista una sua intrinseca dignità e una sostanziale autonomia rispetto alla teologia e al potere religioso. L’aldiquà cessa di essere subordinato all’aldilà.
Già Dante nel De Monarchia, pur rimanendo ancorato al dettato paolino che vede in Dio l’unica fonte dell’autorità, aveva teorizzato la netta separazione tra potere temporale e potere spirituale; più in là si era inoltre spinto Marsilio da Padova, il quale, appigliandosi ad Aristotele, sostenne che il sovrano deriva il suo potere non dall’alto del cielo, ma dal basso, cioè dal popolo; merito di Machiavelli, infine, fu quello di disgiungere la sfera dell’utile (la realtà «effettuale»), propria della politica, da quella della morale (il dover essere). Quando Sarpi deve rintuzzare l’interdetto fulminato da papa Paolo V contro la Repubblica, ricorre alla forza – giuridica – della consuetudine e delle argomentazioni logiche, sostenendo che, in nome del bene comune, i religiosi sono tenuti a rispettare le leggi del paese in cui vivono. In questo il Vangelo è chiaro: a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio. Il potere temporale del papa non ha quindi alcun fondamento.
La legittimità del moderno si basa su concetti teologici secolarizzati, al netto quindi delle loro valenze soteriologiche. L’aspirazione a un ordine sociale quanto più possibile perfetto, le idee di progresso e di benessere non fanno che trasporre, mutatis mutandis, l’idea cristiana di salvezza ultraterrena al saeculum, ma ciò – contrariamente a quanto afferma Tudisco, con qualche altra contraddizione alimentata da una forma espositiva non sempre limpida e perspicua – non vuol dire che Sarpi ripudî l’idea teologica di provvidenza, come attesta un passo del suo epistolario, in cui sembra prefigurare la vichiana «eterogenesi dei fini»: «Ma Dio soprastà a tutti, e conduce a sua gloria, contro i disegni umani, quello che il mondo invia tutto altrove». Dio non è dunque in discussione, né lo è la fede. Ma un conto è il regno dei cieli, che non è di questo mondo, un altro il saeculum in cui l’uomo, con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi dubbi, è chiamato a costruire la sua terrena civitas.
Per fare questo, egli non ha altri strumenti all’infuori della ragione e della scienza, che non gli sono di alcun aiuto per quanto concerne gli oggetti della fede e tuttavia gli sono indispensabili per conoscere la realtà mondana e per agire di conseguenza. Senza pretese di onnipotenza e di onniscienza. Lasciando libertà di opinione laddove la scienza, con i suoi progressi, non ha ancora fatto chiarezza. Libertà massima, poi, «in quello di che non si può chiarir, e per consequente in tutto quello di chi attribuisce la divinità». Di qui la continua e convinta volontà di dialogare con i protestanti e, per contro, la sua costante avversione nei riguardi dei gesuiti, ciechi e biechi strumenti al servizio del papato e delle sue mire mondane: un ordine religioso militarizzato, capace di ogni nequizia.
Solerte nella difesa della Repubblica, fino a rischiare più volte la vita per le sue idee, Sarpi disdegnò gli agi, le ricchezze e i privilegi, continuando fino all’ultimo a tenersi informato su quanto avveniva nel mondo, collaborando fattivamente con gli scienziati della sua epoca e propugnando a oltranza la libertà di religione: contro quella che, adottando il linguaggio apocalittico dei riformati, non esitava a chiamare «la meretrice». Cioè la Chiesa mondana di Roma, il cui potere si reggeva sul sostegno della Spagna imperiale, che era anche il nemico più temibile e temuto della Serenissima.