Irene Vallejo è una giovane filologa spagnola, specializzata in letteratura classica greca e latina. È anche una divulgatrice di successo: tiene spesso conferenze e cura una rubrica settimanale sul più importante quotidiano spagnolo.
Non stupisce, pertanto, che il suo libro “Papyrus – l’infinito in un giunco”, pubblicato nel 2019 in Spagna, abbia superato le 250.000 copie vendute, e si appresti ad essere riproposto nelle lingue più importanti. Qui da noi è uscita qualche settimana fa una edizione ben tradotta da Monica R. Bedana edita da Bompiani (pp. 548, €24,00).
Questa saggio di carattere eminentemente divulgativo ripercorre la storia del libro nel mondo antico. Prendendo le mosse da Alessandro Magno e dal suo successore Tolomeo, il racconto inizia dal progetto di costituire ad Alessandria la biblioteca che contenesse tutto lo scibile umano. Sappiamo poi come è andata a finire. Così come una persona di media cultura ben conosce la maggior parte delle notizie che la scrittrice spagnola narra nel suo volume. Però, come capita ai bambini, è bello sentir raccontare le storie che già conosciamo, specie se chi lo fa si spoglia dei panni del cattedratico parruccone per dare spazio alla propria passione e all’amore per tutto ciò che ha a che fare con scritti così lontani nel tempo, ma così vicini a noi da un ponto di vista culturale.
La Vallejo si muove con disinvoltura tra mito e storia, espone le conclusioni degli archeologi e le ipotesi scientifiche che riguardano i supporti su cui si scriveva un tempo, la nascita delle scritture, i testi prima orali e poi scritti, gli autori noti e quelli sconosciuti, i copisti, gli scribi e gli scrivani e le raccolte di testi. Si rammarica per la perdita di ingenti patrimoni letterari, spazzati via dall’iconoclastia culturale e dal semplice trascorrere del tempo. Formula ipotesi e fa continuamente riferimento alla cultura del nostro tempo, che tanto deve al mondo che l’ha preceduta.
Peccato che, pagina dopo pagina, l’autrice scivoli via via nel politicamente corretto. La sua diventa pertanto una interpretazione personale e in chiave mainstream di una cultura di cui, sicuramente, siamo tutti figli, ma che è molto lontana dal modo dominante di intendere la vita oggi.
Dire che Erodoto era un meticcio perché era nato ad Alicarnasso che oggi si trova sulle coste turche che si affacciano sull’Egeo, è una forzatura. Così come lo è confondere il progetto imperiale di Alessandro Magno con il tentativo di fare piazza pulita delle specificità culturali di tutti i popoli. Alessandro non distrusse la religiosità egizia, ma diventò sacerdote di Amon, e aveva rispetto per i nemici sconfitti tanto da accettarne le usanze.
Forse la Vallejo dovrebbe tenere in maggiore considerazione l’opinione di François Hartog, il quale metteva in guardia dal fare sbrigativi paralleli tra il mondo antico e l’attuale. In buona sostanza la democrazia ateniese, che si fondava sul sangue, ed escludeva dal governo donne, schiavi, produttori e stranieri, non ha molto a che fare con l’attuale. E si tratta solo di un esempio tra i tanti.
Ma si sa: se si vuole avere successo nel campo editoriale e nella comunicazione giornalistica, pare che oggi non si possa prescindere dal pensiero unico obbligatorio.
Strano modo di vedere le cose quello di una cultura a senso unico che dice di voler salvaguardare le differenze mentre poi si affanna ad omologare tutto inserendolo nel tritacarne di una mentalità contemporanea sì, ma sostanzialmente ristretta e incapace di cogliere le vere differenze che sono il sale della conoscenza.