“Ma che? Parlo turco forse? Visto che non capisci..”
Così mio padre, una vita fa, quando lo facevo…beh diciamo inquietare. E ammetto che accadeva abbastanza spesso. Come, e forse più, accade oggi a me, con mio figlio…
Parlo turco… Un modo di dire. Per indicare che chi dovrebbe ascoltare non ascolta. Che chi dovrebbe capire, non capisce. O finge di non farlo.
Perché, nel modo di dire popolare, il turco è lingua astrusa per antonomasia. Incomprensibile agli umani. Dai suoni strani. Dalla sintassi difficile e intricata. Anche se sospetto che il mio amico Fabio L. G. negherebbe questo, dicendo che, per molti aspetti, è la nostra lingua, l’italiano, ad essere difficile. Tant’è che a parlarla davvero sono ben pochi… Già, ma Fabio non fa testo. È uno dei massimi esperti, in Europa, di lingua e civiltà turca – e dei popoli turcofoni… Per forza che a lui non sembra difficile…
Comunque, mio padre era uso dire così. E come lui molti della sua generazione. E di quelle precedenti. Quando, appunto, il mondo turco appariva una realtà remota. Strana e, per certi versi, favolosa.
Oggi non più. In Turchia si va in vacanza. E non è neppure una meta tanto remota. A un tiro di schioppo. O poco più. E poi i ragazzini sono abituati a lingue ben più astruse e strambe. Magari artificiali. Come la figlia di una mia amica, impallinata con la lingua Klingdom. Che è la lingua parlata da dei personaggi di Star Trek che vivono su un remoto impero galattico. Insomma, i turchi sono ormai vicini di casa. Abbastanza banali…
Però, questo modo di dire, me lo ritrovo davanti in una pagina di Pirandello. In “Uno, nessuno, centomila”. Come spesso avviene, Pirandello utilizza un modo di dire, comune, popolare. Ma lo reinterpreta. Gli dà un significato diverso. In profondità.
Noi non ci siamo capiti, dice un personaggio all’altro. Eppure non abbiamo parlato in turco, caro signore. Parliamo la stessa lingua. Ma non ci comprendiamo lo stesso. Perché…le parole sono vuote.
Vuote…. Il problema non è la differenza di lingua. Che uno parli turco, o, che so, ostrogoto. Il problema è che, pur usando la stessa lingua, le medesime parole, non ci capiamo.
Il problema non è, semplicemente, filologico. Pirandello non è De Saussure. Non ne fa una questione di significante e pluralità di significati. Che, pure, esiste. Ma è solo la superficie della questione. La sua, immediata, apparenza.
Le parole sono veicoli. Che dovrebbero permetterci di comunicare. Ma un veicolo deve avere qualcuno che lo guida. Non può essere solo un guscio, privo di contenuto.
E qui sorge il problema posto da Pirandello. Senza rendercene conto noi riempiamo quei gusci di noi stessi. Non, però, del nostro pensiero razionale. Ammesso, e non necessariamente concesso, che si sia in grado di pensare con lucida razionalità. È di ciò che urge nel nostro sub-conscio, nella vasta zona d’ombra della nostra psiche, che riempiamo quei gusci. Quelle parole.
E così io dico “pera”, che è un frutto, una cosa semplice. Qualcosa su cui tutti dovremmo convenire. Ma riempio la parola di altro. Del fatto che a me piacciono le pere col formaggio, e le associo a dei ricordi, felici, delle vacanze da bambino, a casa dei nonni. In campagna.
Ma chi ascolta non ha gli stessi ricordi. Non prova le stesse emozioni. Magari le pere non gli piacciono. Anzi, ha una memoria disgustosa di una pera marcia. E bacata dai vermi. E così..non ci capiamo.
Certo, esempio banale. Sciocco. Ma provate a proiettare lo stesso ragionamento su altre parole. Più importanti. Che usiamo e abusiamo.
Quante declinazioni, significati, ha la parola Libertà?
Quanti la parola Amore?
Io dico “Ti amo”. Ma carico questa parola delle esperienze dei miei amori passati. Dei miei desideri, aspettative, illusioni. Spesso anche interessi meno…nobili. E delle mie paure…
E tu senti “Ti amo”. E per te la stessa parola subito si riempie di altre aspettative. Di altre illusioni. Di altre paure.
Da qui l’equivoco. Un nodo, o, più spesso, una catena di nodi che, prima o poi, vengono al pettine. E tu ti accorgi che chi diceva di amarti, e che tu credevi di amare, è una persona diversa. Totalmente aliena. Qualcuno che mai ti ha capito. E per il quale, puoi arrivare addirittura a provare disgusto.
E ti chiedi perché…come ho fatto… Addirittura, ho buttato tanta parte della mia vita…
Ti senti stupido.
Ma il problema erano le parole. Che, come dice Pirandello, sono vuote. E siamo noi a riempirle. Di cose che poco hanno a che fare col loro significato etimologico. Apparente.
Come dei recipienti senza coperchio. Vi può entrare di tutto. Talvolta la rugiada. Più spesso una pioggia inquinata e putrida..
Sento un botto. Mio figlio si è messo a palleggiare in casa. E ha rovesciato un vaso.
“Ti ho detto mille volte che non devi giocare a pallone qui. Ma che, parlo turco forse?”
Mi guarda. E scoppia a ridere.
Già…espressione sbagliata, con lui… se parlassi turco, probabilmente, capirebbe…