Ogni generazione si è inventata un linguaggio. Parole che cambiavano di significato, parole nuove. Magari non si arrivava a livelli dannunziani nella creazione dei termini nuovi (anche perché mancavano mecenati pronti a pagare per “Rinascente” o “Aurum”), però alcune parole riuscivano ad imporsi per più anni mentre altre svanivano al termine dell’estate o dell’inverno. Siamo passati da “Matusa” a “bello zio”, da “sfitinzia” a “scialla”.
Parole nuove per evidenziare la differenza, la distanza, non solo dai genitori e dalle generazioni precedenti, ma anche da altri coetanei che rappresentavano qualcosa di estraneo rispetto al proprio gruppo di appartenenza. In fondo era una riproposizione del linguaggio della carboneria, ma anche di quelle espressioni utilizzate da gruppi di lavoratori che non volevano essere compresi dai padroni e dagli addetti ai controlli.
Dunque non c’è da stupirsi di fronte a ragazzini italiani che, non avendo ormai grande dimestichezza con la lingua italiana, si rivolgono agli amici chiamandoli “bro”, da brother. Comprensibile, considerando il livello dei loro insegnanti di italiano. Ma, non sapendo maneggiare la lingua nazionale – e neppure la lingua dei rispettivi territori, poiché i dialetti vanno scomparendo – qualcuno ha lanciato il “parlare in corsivo”. Non si coniano nuove parole, non si crea un linguaggio proprio ed immaginifico per non farsi capire dagli altri, ma ci si limita a strascicare le vocali. Nessun neologismo, solo l’immagine più appropriata del decadimento culturale di una o più generazioni.
D’altronde ciò che conta davvero è avere più follower che seguono le lezioni di una ragazzina che pronuncia in modo strano le normali parole di tutti i giorni. La creatività ridotta ad un allungamento delle vocali. Deve essere questo il nuovo Rinascimento italiano.
Un tempo gli anziani, di fronte alle minigonne, sostenevano che le gonne si riducevano di pari passo con il cervello. Adattando poi il confronto ai capelli: più si allungano e più le idee si accorciano. Perché gli anziani, come è naturale, hanno sempre fatto fatica ad accettare le novità. Però, appunto, lo scontro era sulle idee che si trasformavano in moda, in acconciature, in stile. E anche in neologismi, in nuovi utilizzi di parole esistenti.
Con il “parlare in corsivo” non c’è nulla di tutto ciò. Se non (si spera) una provocazione nei confronti di chi pensa ancora alla lingua come ad una musica. Un passo avanti rispetto ai rapper. Verso il baratro.