A settembre inizia il nuovo anno scolastico: posso già anticipare quale sarà il leitmotiv di quest’anno come degli ultimi due o tre che l’hanno preceduto: inclusione.
L’idea che si debba passare dalla semplice integrazione degli allievi con disabilità ad un concetto più ampio, ossia a una strategia didattica finalizzata a valorizzare le diverse abilità, comunque si manifestino, all’interno del gruppo-classe é di per sé ineccepibile, così come il principio di individualizzazione dell’insegnamento, rispetto ad una didattica troppo standardizzata.
Detto così, infatti, chi potrebbe non dirsi d’accordo? Peccato che poi, come spesso accade soprattutto in Italia, le teorie più nobili si traducano nella pratica in tutt’altro: l’individualizzazione dell’insegnamento in una scuola con il problema di troppi allievi per classe (le classi-pollaio) e di studenti sempre più problematici e spesso poco interessati si risolve molte volte nell’abbassare gli obiettivi per tutti e arrivare al “6 politico”.
L’inclusione dovrebbe prevedere tempi e percorsi diversi perché ciascuno possa arrivare alla meta, ossia ad apprendere; invece, troppe volte, diventa un accontentarsi del minimo indispensabile. La scuola italiana ha molti problemi e sicuramente è vero che alcune cose devono cambiare, ma mi sembra che uno degli aspetti fondamentali sia che si attribuiscono ad essa sempre più funzioni tranne quella che dovrebbe avere: insegnare ad apprendere e a pensare in modo critico.
Non mi addentrerò nella discussione sul passaggio dalle conoscenze alle competenze, ma vorrei ricordare che se non vi sono le abilità di base, come comprendere un testo e saperne scrivere uno, magari anche saper minimamente argomentare, non vi possono essere né le une, né le altre.
Nella secondaria superiore non ha senso sostenere che tutti sono adatti a far tutto (e la teoria delle intelligenze multiple ci dice appunto che ciascuno ha talenti diversi), quindi ben venga il riorientamento se lo studente non è portato per un certo percorso; bisognerebbe evitare insomma che studenti non interessati a uno studio più teorico vadano al liceo. Più in generale però, poiché riguarda ogni corso di studi, è necessario che gli allievi e ancor prima le loro famiglie accettino che alcune fatiche e difficoltà sono inevitabili e necessarie.
Oggi, e sicuramente gli anni della pandemia hanno peggiorato la situazione pur non avendola creata dal nulla, i disturbi d’ansia e di panico, le fobie scolari e i ritiri sociali sono sempre più numerosi. Spesso la soluzione diventa quella di spianare la strada e abolire gli ostacoli secondo una sorta di “buonismo” che agisce solo sull’onda dell’emotività.
Io credo invece che il compito dell’educazione sia innanzitutto quello di educare alla realtà e quindi anche a riconoscere sì i propri punti di forza, ma anche i propri limiti. Inoltre nella vita le difficoltà sono e saranno sempre inevitabili; si tratta di imparare ad affrontarle. Ho letto ultimamente da qualche parte che ci sta lasciando la generazione di ferro, quella di chi è nato prima della seconda guerra mondiale e ha dovuto affrontare condizioni difficili nella prima parte della propria vita, mentre ora siamo alla generazione di cristallo: gli attuali adolescenti vanno in pezzi per un nonnulla.
Come stanno affermando anche psicologi come Crepet, gli stessi genitori sono spesso fragili: iperprotettivi o assenti, in entrambi i casi non sanno fare gli adulti; la scuola, specie di secondo grado, non può rimediare ai danni fatti in precedenza ma forse potrebbe mostrare che la fatica è a volte inevitabile, che la concentrazione e l’attenzione si possono esercitare e soprattutto che la realtà è complessa e non tutto può essere semplificato, perché se ne perde l’essenziale. Questa sarebbe per me la vera inclusione