È passato quasi un anno dall’arresto di Patrick George Zaki. Il ragazzo si trova attualmente in detenzione in attesa di giudizio nella prigione di Tora, alla periferia del Cairo. Prigione che, come noto, è dedicata a chi è colpevole dei c.d. «reati di coscienza». Le azioni intraprese dalle Isitituzioni risultano insufficienti e lente. Maggiore determinazione hanno dimostrato i gruppi dei diritti umani che continuano a difendere i diritti dei detenuti egiziani, nonostante lo spazio fortemente ridotto per la società civile e il soffocamento di tutte le voci democratiche nei principali media egiziani.
La vicenda dell’arresto di Zaki, assieme al caso Regeni, che vi abbiamo raccontato in questo articolo, ha riportato l’attenzione sulla situazione dei diritti umani in Egitto, e sulla relazione asimmetrica tra la comunità internazionale e Il Cairo.
L’arresto di patrick zaki
Il 7 febbraio 2020, Patrick George Zaki, giovane studente egiziano e impegato attivista dell’EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights) in materia di diritti umani, torna in Egitto per una visita alla famiglia. È il suo primo ritorno a casa dall’agosto 2019, data in cui aveva lasciato il Paese per poter seguire i suoi studi post-laurea a Bologna.
Quel giorno, all’aeroporto internazionale del Cairo, Patrik viene arrestato dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale. Dopodiché, scompare per le 24 ore successive. Durante questo arco temporale, secondo i suoi avvocati, il ragazzo è stato picchiato, sottoposto a scariche elettriche, minacciato e interrogato su varie questioni legate al suo lavoro e al suo attivismo.
La mattina dell’8 febbraio, Patrick compare davanti alla Procura a Mansoura, la città di origine del ragazzo, a circa 120 chilometri a nord-est del Cairo. Qui, i pubblici ministeri iniziano a interrogarlo. Secondo l’EIPR è stato presentato un rapporto di arresto falsificato che rivendicava l’ora, il luogo e gli eventi dell’arresto.
L’elenco di accuse contro Patrick presentate dai pubblici ministeri includono diffusione di notizie false, incitamento a proteste non autorizzate, istigazione alla violenza e ai crimini «terroristici», e gestione di un account sui social network con l’obiettivo di sovvertire l’ordine sociale e la sicurezza pubblica.
Il 9 febbraio i pubblici ministeri stabiliscono che Zaki deve scontare 15 giorni di detenzione preventiva in attesa di ulteriori indagini.
Patrick Zaki rimane in carcere
Il 15 febbraio l’EIPR chiede l’immediato rilascio dello studente egiziano e l’archiviazione di tutte le accuse contro di lui. Secondo l’EIPR si tratta di un’ingiusta detenzione, perché il ragazzo è detenuto in carcere come prigioniero di coscienza a causa del suo lavoro per i diritti umani e per le sue opinioni politiche espresse sui social media. Non solo. L’EIPR chiede anche la fine della detenzione arbitraria di professionisti dei diritti umani, membri di gruppi della società civile e giornalisti.
La risposta del tribunale egiziano non sortisce gli effetti sperati. Il tribunale, infatti, respinge l’appello per la scarcerazione immediata e conferma il fermo preventivo del ricercatore. Il caso preoccupa le organizzazioni per i diritti umani, che rimarcano la tendenza delle procure egiziane a rinnovare i 15 giorni di custodia a tempo indeterminato.
I rinnovi della custodia cautelare di Zaki
A suon di «altri 15 giorni di reclusione per Patrick Zaki» stabiliti dalla Procura, il giovane ha già trascorso quasi un anno in custodia cautelare, con continue sessioni giudiziarie di rinnovo della detenzione. La maggior parte delle quali, nei mesi di marzo e aprile, erano state ufficialmente autorizzate a svolgersi senza la presenza di imputati o rappresentanza legale. In quei mesi, questa era diventata la prassi dell’amministrazione carceraria che, nel caso di specie, adduceva di non riuscire a trasferire Patrick Zaki citando un evento di forza maggiore.
Ma questo non vale solo per Patrick. Alla maggior parte degli imputati nei casi di sicurezza dello Stato viene, infatti, ancora negato il diritto di presentarsi davanti ai loro pubblici ministeri o giudici quando decidono sull’estensione della custodia.
Scontro fra l’Egitto e i gruppi di diritti umani
La repressione contro la società civile in Egitto è tornata al centro dell’attenzione mondiale dalla metà di novembre 2020. In questa occasione, tre dirigenti dell’EIPR (la più importante organizzazione indipendente per i diritti umani del Paese) sono stati arrestati con l’accusa di terrorismo. Accusa assurda e generica, a detta dell’EIPR, simile a quella rivolta a Patrick Zaki. Tutto ciò avveniva nell’ambito di operazioni di arresto e perquisizione arbitrarie che apparentemente prendevano di mira individui percepiti come politcamente attivi. I tre dirigenti dell’EIPR sono stati poi scarcerati il 3 dicembre.
Il fatto che l’organizzazione non governativa sia stata presa di mira non è una sorpresa. È coerente con le misure legislative, politiche e amministrative presa da Al Sisi dal 2014. Con l’ascesa dei militari nella vita politica egiziana le tensioni si sono inasprite, ma prima le cose non andavano tanto meglio. I gruppi per la difesa dei diritti umani in Egitto, infatti, sono stati un bersaglio dei regimi negli ultimi decenni, per via della loro autonomia da un punto di vista amministativo e finanziario. Negli ultimi anni sono però cambiate le modalità di controllo dei gruppi di difesa dei diritti umani:
- Atteggiamento di opaca tolleranza da parte di Hosni Mubarak, che usava escamotage amministrativi per complicare il lavoro delle organizzazioni;
- Campagna repressiva da parte di Abdel Fattah al Sisi, che è andato all’attacco con arresti e minacce.
Ma facciamo un passo indietro. Lo scontro tra l’esercito e i gruppi per i diritti umani, in realtà, ha origine con la rivolta contro Mubarak, nel febbraio 2011. Durante la manifestazione, i gruppi per i diritti umani denunciarono gli abusi nei confronti dei manifestanti. E, in questo senso, svolsero un ruolo fondamentale. La risposta dell’autorità militare fu aggressiva: la polizia fece irruzione negli uffici del Centro legale Hirashm Mubarak e arrestò decine di attivisti, avvocati e giornalisti.
Detenzione preventiva per gli attivisti egiziani
Le conseguenze di tali avvenimenti sono ben visibili oggi. I centinaia di attivisti che presero parte alla rivolta sono in carcerazione preventiva, misura che viene sistematicamente rinnovata. Senza lasciare alle persone la possibilità di difendersi.
La detenzione preventiva è stata la misura punitiva più usata dalle autorità contro tutti quelli che sono considerati oppositori politici. Soprattutto dopo l’abolizione della detenzione amministrativa nel 2013 perché è stata dichiarata incostituzionale. Si trattava di una misura straordinaria che permetteva al ministero dell’Interno di incarcerare le persone senza accuse per un periodo fino a sei mesi. Al suo posto, il governo ha fatto largo uso della detenzione preventiva che, di fatto, altro non è che una versione legalizzata di detenzione ammministrativa. In questo modo, si evita di rinviare a giudizio gli indagati. Si segretano i casi. Si privano, sostanzialmente, gli indagati del diritto di difesa in tribunale poiché non si presentano accuse o fascicoli di inchiesta. Ormai lo Stato ha abbattutto la barriera tra quello che è legale e quello che non lo è.
A distanza di nove anni le autorità continuano a trattare gli attivisti come una potenziale minaccia e sono ritenutI responsabili della situazione nel Paese. Negli anni la repressione è stata inesorabile. E gli attivisti sono entrati e usciti dal carcere in continuazione. Purtroppo, lo scenario dell’arresto di Zaki è comune nell’Egitto del generale Abdel Fattah al Sisi.
Un esempio di questa tendenza si è visto recentemente. In seguito alla manifestazione del 20 settembre 2020 si è verificata la più vasta ondata di arresti condotta da quando il presidente Al Sisi si è ufficialmente insediato al potere nel 2013. Centinaia di persone hanno manifestato contro il governo per le accuse di corruzione avanzate contro il presidente.
Gli attivisti nel mirino del regime egiziano
Dopo aver rovesciato nel 2013 il governo eletto democraticamente, il regime militare ha cominciato a paragonare i difensori dei diritti umani a «gruppi terroristici».
Gli attivisti denunciano che, da quando ha preso il potere nel 2013 e poi he vinto le elezioni nel 2014, il presidente Abdel Fattah al Sisi ha avviato una repressione senza precedenti. Tra le altre, due sono le misure autoritarie adottate dal regime. In primis, il divieto di manifestazioni non autorizzate. In secundis, l’approvazione di alcune modifiche legislative che hanno ampliato la definizione di “terrorismo”, per includere qualunque forma di dissenso. Ciò ha dato ampi poteri alle Procure, che oggi possono tenere gli indagati in carcere mesi o perfino anni senza formalizzare accuse o fornire prove. E, per effetto domino, l’estensione legislativa ha reso anche più facile l’arresto di attivisti e giornalisti.
Quello che ha subito l’EIPR fa parte di una campagna di repressione contro le organizzazioni della società civile in Egitto. L’obiettivo non dichiarato è quello di imprimere il marchio del «terrorismo» sul lavoro della società civile. Il fiine ultimo è quello di mettere a tacere gli ultimi attivisti indipendenti rimasti nel Paese. Sul sito ufficiale dell’organizzazione si legge:
“Il prezzo pagato dai dirigenti liberati è un piccolo esempio delle indicibili sofferenze di migliaia di detenuti le cui vite sono quasi congelate e sprecate in lunghe detenzioni preliminari o scontando condanne emesse in base a leggi costituzionalmente contestate”.
La comunità internazionale sta a guardare ma non agisce
E’ evidente che le misure autoritarie adottate dal regime militare servissero a mettere alla prova la comunità internazionale. Il focus è rivolto soprattuto a quei Paesi che a parole millantano una certa sensibilità sulla questione dei diritti umani in Egitto. Mentre mantengono relazioni strategiche con il regime. Il presidente Al Sisi tiene gli attivisti ostaggio delle relazioni diplomatiche con la comunità internazionale. In questo modo, scongiura le richieste di riforme politiche e giuridiche a una lista di individui da liberare. Si tratta di una pillola amara da ingoiare per la comunità internazionale. Se non fosse che, sull’altro piatto della bilancia, ci sono interessanti accordi militari ed economici. In virtù del più classico Do ut des (letteralmente «io do affinché tu dia»), la comunità internazionale chiude un occhio (forse anche due) sulle violazioni e gli abusi commessi dal regime.
Eppure, uno spiraglio di luce sembra arrivare dal Parlamento europeo. Nella risoluzione del 18 dicembre 2020 sulle violazioni del diritti umani in Egitto, il Parlamento ha chiesto una forte reazione dell’Unione per Regeni e Zaki. Nello specifico, i deputati hanno chiesto un’indagine indipendente e trasparente su tutte le violazioni dei diritti umani nel Paese, per assicurare che i responsabili siano chiamati a risponderne.
Per quanto riguarda Patrick Zaki, il Parlamento ha ricordato che la sua detenzione è stata costantemente prorogata negli ultimi 10 mesi, le ultime volte il 6 dicembre 2020 per ulteriori 45 giorni di carcere e il 19 gennaio 2021, per altri 15 giorni. I deputati hanno chiesto, dunque, la scarcerazione immediata e incondizionata di Patrick Zaki e il ritiro di tutte le accuse a suo carico. Oltre all’attuazione di una reazione diplomatica ferma, rapida e coordinata da parte dell’Ue.
In questo contesto stride la visita a Parigi del presidente egiziano Al Sisi, cominciata con un incontro all’Eliseo destinato a rafforzare la cooperazione bilaterale di fronte alle crisi in Medio Oriente. Sul piede di guerra le associazioni di difesa dei diritti umani, che contestano questa visita.
Sembra che sulle Istituzioni non si possa contare più di tanto. Dal basso, invece, si fanno sentire in maniera altisonante i gruppi di difesa dei diritti umani. Intanto, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, lancia un appello che:
“E’ veramente il momento che ci sia un’azione internazionale guidata e promossa dall’Italia per salvare questo ragazzo, questa storia anche italiana, dall’orrore del carcere di Tora in Egitto”.
Due vicende. Stesso atteggiamento dell’Italia e dell’Europa. L’omicidio di Regeni, allo stato attuale, si esaurisce con quattro anni di impunità per gli agenti di sicurezza egiziani che hanno torturato il giovane ricercatore. La detenzione arbitraria e inaccettabile di Zaki potrebbe avere un finale diverso. ln attesa che l’Italia e l’Unione Europea recuperino facciano dei principi morale la moneta di scambio nei loro rapporti diplomatici nel Mediterraneo.