Il centenario del Partito Comunista Italiano ha dato la stura a un profluvio commemorativo che è allo stesso tempo inevitabile, giusto e fastidioso. Inevitabile perché si tratta dell’anniversario tondo di un evento oggettivamente rilevante come il congresso di Livorno che sancì la nascita del PCI. Giusto perché questi anniversari sono una delle poche occasioni per riportare alla memoria collettiva, soprattutto delle nuove generazioni, fatti di storia contemporanea che altrimenti rischiano di scivolare definitivamente nell’oblio: analoghe celebrazioni si terranno sicuramente l’anno prossimo per la marcia su Roma e l’avvento del regime fascista, anche se i toni saranno sicuramente meno nostalgici. L’aspetto stucchevole è appunto quello retorico, in quanto queste occasioni vengono prese a pretesto per un generico “come eravamo”, per un “si stava meglio quando si stava peggio” che rappresenta una grave distorsione mnemonica.

La tradizione del comunismo italiano
Il comunismo italiano che ho conosciuto è quello post sessantottino e in questa specifica cronologica sta una mutazione di senso profonda rispetto al comunismo originario, cioè quello che va dal 1921 al 1945, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, e ai primi decenni di dopoguerra. Col sessantotto i movimenti studenteschi determinarono infatti nel comunismo una prima, grande crisi di adattamento alla realtà.
Da un lato, il PCI veniva da una tradizione morale e moralistica che gli impediva di accogliere pienamente quelle istanze libertarie che, per esempio, il Partito Radicale seppe interpretare molto più abilmente e che rimasero sempre una spina nel fianco della sinistra italiana, con periodici singulti quale per esempio quello degli indiani metropolitani.

D’altro canto, nel ‘68 germinarono anche, come in un brodo di coltura, istanze di carattere più apertamente rivoluzionario che sarebbero sfociate nei movimenti terroristici i quali, ponendosi alla sinistra del Partito Comunista, ne aggravarono la crisi identitaria.
Al di là di questo schiacciamento, però, del comunismo italiano degli anni ‘70 e più in generale del dopoguerra rimane incomprensibile l’adesione di massa, di milioni di persone, a un modello politico che contemplava due fondamentali; la dittatura del proletariato, e quindi la negazione di tutte le fondamentali libertà che le democrazie occidentali avevano consolidato in Europa, Nord America e in molte altre lande del pianeta; uno statalismo assoluto che ben prima della l’implosione dell’est europeo e della conversione al capitalismo cinese aveva già palesato la propria irragionevolezza autodistruttiva. Non per nulla il comunismo italiano di massa restò un unicum nel mondo occidentale: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania occidentale e persino Francia e Spagna non conobbero nulla di simile.
Perché gli italiani votavano PCI
Perché così tanti italiani potessero affidarsi a un pensiero liberticida e illogico è un mistero che è stato più volte affrontato, sviscerato e in parte anche risolto a livello di indagine politologica e storiografica. Ma sul piano più personale, privato, psicologico si possono rilevare due pulsioni fondamentali, che agivano sui militanti in maniera talmente pressante da riuscire a oscurare qualunque altra valutazione critica.
La volontà di egualitarismo sociale
La prima era e resta ancora oggi condivisibile o almeno comprensibile, ed è l’egualitarismo sociale, cioè l’avversione alle esasperazioni capitalistiche e liberistiche che determinano livelli di diseguaglianza nei redditi e nelle opportunità inammissibili da un punto di vista etico. La seconda era invece quella che Giovannino Guareschi chiamava la tendenza a “portare il cervello all’ammasso”, cioè la considerazione che se tante persone si professavano comuniste in quell’ideologia liberticida, suicida e omicida ci doveva essere qualcosa di talmente buono da rendere vantaggioso seguirla. Questo ragionamento è in realtà un circolo vizioso, una petitio principii, ma in politica è più in generale in tutte le dinamiche sociali e collettive funziona egregiamente come aggregatore di consenso.
Ovviamente ci sono poi dei basilari aspetti concreti, organizzativi, operativi da tenere in considerazione. In primis la struttura ecclesiale – nel senso letterale, quindi assembleare e gerarchica – del partito, che consentiva di esercitare sulla comunicazione, sulla società, nei luoghi di produzione un impatto enorme, oggi inimmaginabile per qualunque partito e per qualunque ideologia.
La soft power del comunismo

Un altro elemento determinante è stato poi il fondamentale assunto gramsciano dell’egemonia, la consapevolezza – chiara al comunismo italiano molto più che non alla Democrazia Cristiana che pure mantenne il timone governativo per gran parte della prima repubblica – della pari importanza tra le azioni politiche finalizzate a ottenere il potere in senso stretto e le azioni culturali, necessarie a stabilire una scala valoriale e un idem sentire che agevolino la conquista e il mantenimento di tale potere. Ciò che oggi chiamiamo soft power, più o meno. Consideriamo che per decenni in Italia essere un intellettuale, un artista, un uomo di pensiero, di lettere, di studi, significava essere comunista quasi in automatico.
Certo, stiamo semplificando e tagliando con l’accetta fenomeni di straordinaria complessità. Alla fin fine, un compendio molto efficace e completo di tutte le molte, complesse ed estremamente contraddittorie ragioni che hanno spinto milioni di italiani a dichiararsi comunisti per così tanti anni lo si trova nel brano “Qualcuno era comunista” di Giorgio Gaber, un artista che come nessun altro è riuscito a tratteggiare in pochi minuti musicali realtà per le quali tanti studiosi hanno speso anni di lavoro e prodotto tomi ponderosi. Ascoltando con attenzione il brano di Gaber si ripercorrono, assieme alle moltissime ragioni del comunismo in buona fede, anche le contraddizioni e le criticità che agirono da enzima del declino del comunismo italiano in parallelo a quello internazionale.

Merita poi di ricordare la discesa in campo politico di Silvio Berlusconi, forse l’ultimo dei nostri leader ad aver utilizzato in maniera significativa il comunismo, ovviamente come termine di paragone e confronto antagonistico. Basterebbero due figure legate alla carriera imprenditoriale e politica del Cavaliere per esemplificare quella paradossale stagione politico-culturale: Paolo Pietrangeli, regista del Maurizio Costanzo Show e autore del brano “Contessa”, uno dei più celebri e cantati dai comunisti nostrani; e Lucio Colletti, forse il maggiore studioso del marxismo italiano, che entrò a far parte del think tank con il quale Forza Italia corroborò sul piano culturale l’inizio della propria avventura politica. Due comunisti o ex comunisti dalla cui parabola si può comprendere molto.