Pecunia non olet.
La tradizione, riportata per primo da Svetonio, vuole che questa frase sia stata pronunciata da Flavio Vespasiano. Quando il figlio Tito gli rimproverò di aver messo una tassa sulla raccolta delle urine nelle latrine. Che ci volete fare? Tito aveva avuto un’educazione raffinata, allievo di Quintilliano, il massimo retore del tempo….
Ma le urine venivano usate per la concia dei pellami. E da quella tassa venivano al pubblico erario grandi introiti.
E gli Dei sanno se ce ne fosse bisogno, dopo le folli spese del periodo di Nerone. Vespasiano era di famiglia contadina, giunto al potere con una, brillante, carriera militare. E dopo il caos dell’anno dei Quattro Imperatori.
Doveva rimettere in sesto il bilancio. E non era uomo per andare tanto per il sottile.
Per cui: il denaro non ha odore. Disse. E pazienza se, da allora, le latrine pubbliche hanno portato il suo nome. Vespasiano.
Pecunia… il termine latino fa riferimento a “pecus”. Ovvero pecora, in senso più lato armento. Memoria, etimologica, di una lunga stagione ben precedente al denaro. Quando gli scambi commerciali (se così è lecito chiamarli) si fondavano sul baratto. Tipo: io ti do il latte, tu le mele. Unica cosa dobbiamo trattare per decidere quante mele per un orcio di latte.
Per questo ancora oggi, presso popoli africani ed arabi, la trattativa è elemento fondamentale di ogni commercio.
Il prezzo non è fisso. Dipende…
Qualcosa di simile mi è capitata anche a Napoli. Dove il gusto, dal sapore antico, della trattativa commerciale si è, almeno in parte, mantenuto.
Perché è un modo di dimostrare intelligenza, abilità, doti retoriche.
Rende il commercio un piacere. Non qualcosa di arido e meccanico.
Noi, oggi, vediamo quella del baratto come una forma di economia estremamente primitiva. E, in certo qual modo, la guardiamo con sufficienza. E disprezzo.
Tuttavia era la forma di economia più reale e concreta. Priva di ogni astrazione. E quindi meno soggetta a un processo speculativo.
Che è cominciato con la monetazione. Frenato, all’inizio, dall’uso dei metalli preziosi per il conio. Poi, con l’introduzione del cartaceo – i primi “assegni circolari” probabilmente introdotti nel medioevo tardo dai Cavalieri Templari – è cominciato il precipizio. La corsa verso il nulla.
Per un certo tempo la moneta cartacea restò di fatto un “assegno”. Che certificava un determinato valore in oro. Sempre rimborsabile, per lo meno in teoria. Poi, progressivamente (e soprattutto da Bretton Woods) il suo valore è diventato sempre più… astratto. Ovvero svincolato da qualsiasi misura reale. Aleatorio.
Una moneta metafisica. Come ben spiega Argo Villella – geniale economista anomalo di ispirazione steineriana – nel suo saggio “Metafisica della moneta”.
Questa astrazione ha reso la sfera economica una sorta di oceano senza regole e senza legge. Il regno dei venti, delle correnti… e dei pirati. Che oggi hanno il volto, mascherato, dei finanzieri che speculano facendo girare vorticosamente i capitali in tutto il mondo. E causando crisi, stagnazioni, processi inflattivi che poco, spesso nulla hanno a che fare con l’economia reale. Con l’autentica ricchezza delle Nazioni. Con buona pace del vecchio Adam Smith.
E il denaro è diventato così sempre più “sterco del demonio”. Causa di guerre, rivoluzioni, povertà. Perché il denaro non rappresenta una ricchezza reale. Solo il potere, il dominio di pochi. Che sfruttano il mondo. Annientando le risorse dei popoli.
Questo sì puzza. Di zolfo e peggio. Non la pecunia di Vespasiano. Che era, tutto sommato, cosa pulita.
Ancora con un odore sano. Di armenti e di terra.