Non amo le democrazie, forme di governo vetuste e consunte. Figlie degeneri dell’illusione illuministica, hanno privilegiato la libertà formale a detrimento dell’uguaglianza e della fraternità sostanziali, creando spesso società ingiuste, rette da oligarchie inscalfibili e incapaci, senza garantire un vero sistema liberale, cioè concorrenziale.

Certo, le democrazie non tutte sono uguali. Devo dire che quelle nordeuropee mi hanno sempre attratto di più: la Germania ha conosciuto leader giganteschi, si pensi a Helmut Kohl, e il sistema di welfare scandinavo “dalla culla alla bara” ha assicurato un invidiabile livello di civiltà. Anche se il suo tramonto pone qualche interrogativo che meriterebbe un’analisi approfondita.
Inoltre, i margini di interpretazione delle libertà democratiche sono amplissimi. Si pensi solo all’arbitrio concesso alle forze dell’ordine negli Stati Uniti, a mio avviso degno di un paese culturalmente rimasto al Far West, oppure alle politiche di controllo migratorio australiane, che definire “severe” è un pallido eufemismo. E che dire della pena di morte o della monarchia, due palesi contraddizioni dei basilari principi democratici, pure ammesse in tanti paesi che in tal modo si definiscono?
Comunque sia, le democrazie hanno evidentemente imboccato il viale del tramonto. Avendo ormai pienamente assolto al loro ruolo storico, si sono esaurite, private di senso. E anche nei loro confronti, così come con molti altri aspetti sociali quali la dematerializzazione, la pandemia ha agito da enzima, accelerando il processo in corso. Se ancora reggono è solo per horror vacui, perché non si è elaborato un sistema altrettanto aperto ma più efficiente, il dibattito in merito anzi langue, relegato a livello accademico e saggistico, di elaborazione meramente teorica, come se traducendolo nella pratica si temesse di incorrere in un peccato di blasfemia o apostasia.

Ciò detto, però, non amo neanche le dittature, le satrapie, i regimi autoritari che invece riscuotono diffuse simpatie. Certo, di grandi dittatori in vecchio stile, che conculchino le libertà ormai diffuse sul pianeta, ne sopravvivono pochi. Persino Kim Jong-Un sta lanciando qualche flebile segnale di uscita dall’isolamento con cui ha mantenuto la Corea del Nord come una sorta di reliquia novecentesca, alternandolo con altrettanti e ben più sostanziali pugni di ferro, vedi tra i più recenti l’ennesimo potenziamento degli armamenti.
Per il resto, anche regimi come quelli cinese, russo, egiziano, birmano, turco hanno capito che per mantenere il timone saldo è sufficiente revisionare ogni tanto la Costituzione e la legislazione. A quel punto si possono ammettere, almeno formalmente e minimamente, alcuni cosiddetti diritti democratici: il voto, la magistratura indipendente, il culto religioso, la stampa, la possibilità di espressione, le manifestazioni…
Proprio sulla possibilità e sull’opportunità di scendere in piazza, però, si gioca la partita più pericolosa. Tutti sembriamo aver dimenticato quanto accaduto a Hong Kong dove, dopo mesi di manifestazioni pubbliche contro Pechino, “è tornata la pace”, come ha detto la governatrice Carrie Lam con involontario e infelice sarcasmo, rivolgendo alle imprese straniere un caldo invito a tornare a investire nell’ex colonia e rassicurandole che i “tentativi di sovvertire il sistema” sono falliti. Un fallimento di cui non è arrivata quasi l’eco, alle nostre distrattissime orecchie nelle quali era stato tamburellato come un mantra l’elogio dei giovani che protestavano per la libertà.

Questo stesso copione, inaugurato per quanto riguarda l’era dei social media con le cosiddette “rivolte arabe”, che hanno in gran parte prodotto o aumentato miseria, violenza e migrazioni nei paesi dove si sono svolte, in questi giorni si ripete in Russia e Birmania. Appoggiare mediaticamente i sostenitori di Aung San Suu Kyi e di Aleksej Navalny, oppure esprimere solidarietà a Patrick Zaki e Giulio Regeni, consente agli studenti, ai giornalisti e agli intellettuali italiani di praticare il loro sport preferito, quello di anime belle. Per quanto tale disciplina ci sia insopportabile, però, non riteniamo tollerabili i dittatori, né grandi né piccoli.