Un tempo c’erano le scuole di partito. È da questo principio ormai antiquato che si deve partire per dare un senso all’inutilità dei politicanti attuali e allo squallore intellettuale che ci circonda. Scuole di partito che non erano soltanto istituzioni preposte a preparare amministratori e funzionari pubblici, ma luoghi in cui la cultura, nella sua accezione più ampia, era formativa del militante, di quello che si definiva – con una certa enfasi passionale – “soldato politico”.
Discussioni avvincenti, contrasti accesi, progetti velleitari, ma soprattutto la costruzione di un carattere e la maturazione di un comportamento.
Erano anni particolari, senza dubbio, con un collante ormai scomparso ed un una condizione aggregante: il primo, la paura; la seconda, il rischio.
Tempi feroci, per molti versi, dove essere in lista significava quanto meno emarginazione, un volantinaggio come minimo una rissa, un avvistamento isolato comunque una possibile aggressione.
Oggi, guardateli i giovani affiliati alla politica. Adeguatamente educati, riconoscono il sistema entro il quale agiscono, si arzigogolano in pietosi distinguo tra una fazione e l’altra.
Loro mediano, concertano, si confrontano in una politica che non è agone di pensiero e spazio decisionale, ma un luogo virtuale che esclude la guerra dialettica e predilige la danza delle opinioni.
I grandi uomini del passato emergevano per personalità e per spessore culturale; questi neoassunti al circo parlamentaristico si distinguono per esiguità di indole e per irrilevanza intellettuale.
Per mantenere la poltrona acquisita, o per procurarsene una attraverso i giochi elettorali, quando esplodono verbalmente – sempre con il dovuto rispetto e davanti alla platea votante – mascherano semplicemente con la truculenza parolaia la propria debolezza risolutiva.
Fai redigere loro un semplice comunicato e ogni concetto – quando riescono ad esprimerne uno – trasuda di cortigianeria, di doppiezza e di insipida diplomazia.
“Chi non ha più vita in sé stesso è pronto a prenderne in prestito da qualsiasi parte”, annota Abel Bonnard, e infatti li vedi pescare in lontane e serie ideologie, esibire untuosi santini di padri che non hanno conosciuto, pappagaleggiare con citazioni e aforismi di letteratura politica mai frequentata.
E poi ci si chiede – noi con nauseante distacco – perché non ci sia opposizione.
Perché non può esserci dissenso onesto e volitivo nei moderati, per natura deboli nelle idee e presuntosi nelle opinioni. Perché vivendo in maniera parassitaria e sterile “non hanno in vita loro alcun giorno più bello di quello in cui vengono applauditi dai loro avversari”.
Godono dell’approvazione del più forte e ambiscono al riconoscimento altrui, esistendo sempre in posizioni di ricercata giustificazione.
Senza un supporto dottrinario al quale riferirsi, sono comunque deferenti ad un sistema che inconsciamente – anzi, vilmente – non condividono, ma che li protegge da ogni rischio e da ogni paura. Rischio e paura – per capirci chiaramente – di perdere quei privilegi che il potere concede ad ogni controllata e ubbidiente opposizione.
Costruire una resistenza e pilotarne le manifestazioni è la strategia sperimentata di ogni tirannia, e questo tempo fintamente democratico ne è l’esempio concreto.