Vi è una maschera strana, tra le tante giunte sino a noi dal passato. Una maschera del teatro e del carnevale. Ma forse non totalmente carnascialesca. Perché è… Diversa. Ha un che di triste. O meglio, di malinconico.
Pierrot.
Nonostante ciò che comunemente si crede, Pierrot di origine è italiano, e non francese.. Appartiene alla Commedia dell’Arte, e compare, per la prima volta, alla fine del ‘500, grazie ad una Compagnia ben famosa al tempo. La Compagnia dei gelosi. Si chiamava Predolino. Ovvero, in termini odierni, Pierino. Ogni riferimento ad Alvaro Vitali non è né inconscio né casuale..
Predolino altro non era che uno Zanni, il servo, ora sciocco, ora astuto e malizioso.
Poi i nostri comici lo portarono in Francia. E divenne Pierrot, pur venendo interpretato per tutto il ‘600 da italiani. Ed erano italiani anche i due Sticotti, padre e figlio (ancorché questo nato in terra francese) che diedero una svolta radicale al personaggio. E alla sua maschera.
Non più il servitore astuto, erede dello Pseudolus plautino. Niente più lazzi e scherzi dozzinali. Battute salaci e gestualità triviale e ammiccante. I movimenti sono andati rarefacendosi. Rallentando. Per dare un’espressione nel tempo, sempre più trasognata. Il volto dipinto di bianco, le profonde occhiaie nere…la Maschera della malinconia.
Perché Pierrot è maschera malinconica. E nel ‘600, il secolo in cui il personaggio si viene definendo, la malinconia altro non è che l’ humor filosofico. Tema centrale del teatro inglese dopo Shakespeare. Tema che sembra, quasi, ossessionare i poeti. In Francia è il, cosiddetto, Grande Secolo. Molière lo incarna nelle sue commedie. Testi come “La scuola delle mogli” e il, parallelo, “La scuola dei mariti” ne sono vivida rappresentazione. Nei salotti di Parigi gli aforismi fulminei di La Rochefoucauld e di La Bruyère incarnano proprio questo nuovo spirito, inquieto, sospeso fra ragione e mistero. Attratto dall’oscurità e che sogna la luce..
Pierrot è la maschera, astratta, rarefatta, di questo nuovo spirito. Maschera barocca. Maschera della modernità che, nel Barocco, si forgia. Triste, melanconica. Né può essere diversamente. Perché desidera qualcosa che non può avere. Che la ragione, il senso comune, gli nega. Eppure…non può non desiderarla.
Pierrot è innamorato della Luna. E la Luna lo ama. Ma solo in sogno. Durante la veglia resta remota. Bellissima ma intangibile. Laforgue ne darà la versione più struggente e romantica. Ma io ho ancora viva nella memoria l’interpretazione incredibile del tema di Pierrot data ne “Les enfants du Paradise” da Carné con il tocco poetico di Prévert. Dove la Luna si fa donna, la bella, irraggiungibile e mutevole, Garance. Che è poi la, intensa e sensuale, Arletty.
A ben vedere, Pierrot, disperatamente innamorato della Luna, non è che una riproposizione del mito di Endymione. Il bellissimo giovane che ama Selene. E ne è riamato. Ma la Dea non può scendere presso di lui che nel sonno. E baciarlo. Per poi svanire nelle profondità, abissali, del cielo.
E allora Endymione sceglie di non svegliarsi più. Di dormire eternamente. Perché solo così Selene potrà essere per sempre sua.
Certo, questa è solo una versione del mito. Che, come sempre accade, presenta diverse declinazioni, spesso in netto contrasto fra loro.
Tuttavia rappresenta bene la contraddizione, propria dell’uomo moderno, tra realtà e desiderio. Realtà che è la gabbia di ferro costruita da una ragione capace solo di misurare e pensare le cose materiali. Illusione che è, invece, ombra, o meglio proiezione, di qualcosa di immensamente superiore. Quella Luna per la quale Endymione cade nel perpetuo sonno. Quella Luna per cui si strugge Pierrot. E la sua maschera è triste….