Sono sempre stato affascinato dalle fiabe. Vi trovo tante cose, emozioni, simboli, il significato delle tradizioni. L’emergere, dalle profondità, dell’anima dì un popolo. Di una sorta di subconscio collettivo, che si esprime con parole e storie solo in apparenza semplici…
Certo, non sto dicendo nulla di nuovo. Ben altri, e con più sapienza e dottrina, ne hanno parlato. E non è cosa che anch’io, in questo, osi cimentarmi.
Però le fiabe, per essere tali davvero, non devono avere autore. Devono essere qualcosa di… corale. Senza impronta personale. I Grimm le raccolsero dalla viva voce dei vecchi e delle vecchie nelle campagne del ‘700. Già Perrault è troppo elaborato. Suona meno autentico. Manierato, in funzione di un pubblico raffinato..
E non parlo delle fiabe di Calvino. Belle. Ma il filtro intellettuale, dell’uomo moderno, la fa da padrone. Assoluto. Alla fin fine preferisco quelle di Costantino Nigra. Il sentimento romantico gli permette di cogliere l’anima del popolo, dietro al racconto fiabesco.
Però c’è una fiaba che ha un autore. Preciso, e con una forte personalità letteraria. Eppure resta una fiaba. Strana, anomala. Ma pur sempre fiaba.
Pinocchio. Già, perché il Collodi era scrittore vero. E non per ragazzi. Mi capitò, per caso, di ritrovare i suoi Racconti, su una bancarella. Un bancarellaio di Pontremoli, per altro. Che passava l’estate a Gallio, sull’altopiano di Asiago.
Comunque, per farla breve, furono una rivelazione. Meriterebbe un posto ben maggiore nella nostra letteratura, il Carlo Lorenzini.
Il Pinocchio nacque per caso. Ferdinando Martini, che era un giornalista importante e un politico (fu ministro delle Colonie con Salandra, e dell’istruzione con Giolitti) aveva fondato il Giornalino dei bambini. Con intenti pedagogici, ovviamente. Ché, allora, si cercava di educare le nuove generazioni di una, neonata, Italia. E chiese al suo amico Collodi un racconto per ragazzi. Educativo, naturalmente. E questi, che già si era cimentato nei “Racconti delle fate”, si inventò la storia del burattino che diventa, alla fine, un bambino vero. Il libro italiano più tradotto nel mondo. E più conosciuto. Molto più dei “Promessi sposi”.
Ora, mi potrei dilungare sul fatto che il Pinocchio è un romanzo di formazione, nella linea del Meister di Goethe. E che è intessuto di echi classici, visto che il Lorenzini aveva alle spalle buoni studi di retorica. E infatti nella storia del grande pesce che ingoia la barca di Geppetto, ritroviamo il Viaggio Straordinario del greco Luciano. E di Pinocchio e Lucignolo trasformati in ciuchi, l’Asino d’oro di Apuleio…
Ma tutto questo, appunto, starebbe a dimostrare che il romanzo in questione tutto è fuorché una fiaba…
E invece….
E invece per me è una fiaba. Forse l’ultima fiaba.
Vi è qualcosa nel burattino che emerge da una sorta di subconscio collettivo. Che non è, certo, quello arcaico delle storie dei Grimm. È moderno, modernissimo…il burattino, la marionetta priva di volontà vera, che si fa manovrare dall’esterno, da ogni tipo di Mangiafuoco – e da burattinai ben più inquietanti e torvi – appartiene, in qualche modo, alla condizione umana odierna. Ne rappresenta l’inconscio. Che, come tale, può emergere solo con il linguaggio straniante della fiaba. Perché se divenisse lucida coscienza, sarebbe troppo doloroso. Un dolore insopportabile. E se qualcuno ha avuto la ben rara (purtroppo) fortuna di leggere “Marionette che passione!” di Rosso di San Secondo comprenderà cosa intendo dire.
Comunque, Pinocchio, il burattino, se ne sta lì, con le sue bugie , negando a se stesso di mentire. Mentendo anche a se stesso. Facendosi manipolare dal Gatto e dalla Volpe. Ingannando il povero Geppetto, che lo ama nonostante tutto. Cercando di sfuggire alla Fata Turchina. Prendendo a martellate quel rompiballe del Grillo, che ha la, pessima, abitudine di dirgli la verità….
Se ne sta lì, per le strade delle nostre città. Nelle aule scolastiche, e spesso in cattedra, non in uno dei banchi…se ne sta nei luoghi della politica, nei media, soprattutto, dove finge, e si illude, di essere qualcosa di diverso da un burattino…
Collodi ha intuito davvero ciò che urgeva nelle sentine della nostra anima, o se preferite coscienza collettiva. E lo ha fatto emergere con delicatezza. Con un tocco elegante. Dando al suo Pinocchio almeno una speranza. E un aiuto.
L’aiuto di quel prodigioso Naso che si allunga quando mente. Che non è, se ci pensate bene, poca cosa.
E la speranza di poter diventare finalmente un bambino. Un uomo autentico.