Sottile pioggia, monotona, continua. Però l’aria non è affatto fredda. Anzi… Quasi pervasa da una sfumatura di tepore. E il cielo, stranamente, non è cupo. Una luminosità diffusa, sfocata… mi ricorda Van Gogh. O il povero Ligabue…
Febbraio si apre con una sorta di preannuncio della primavera. Non è insolito, qui a Roma. E Gennaio, a parte alcune gelate, è stato mite e molto, troppo piovoso. Alcuni piante hanno già buttato le gemme. Ma non c’è da fidarsi. Jack Frost non si è ancora ritirato nel suo, lungo, riposo annuale. E sino a Marzo può ancora colpire, improvviso e crudele. Come solo gli Spiriti fanciulli possono essere…
L’inverno, però, si avvia al declino. La prima Luna dell’anno, la Luna del lupo, è ormai trascorsa. Ed è in fase calante. La luce della notte ancora intensa. Ma rapidamente va scemando. Verso il Noviluno. Quando solo il riverbero delle Stelle illuminerà il Cielo. Le Pleiadi senza Diana.
Questa pioggia è già, per molti versi, primaverile. Con le attuali temperature favorirà, anzi accelererà lo spuntare dell’erba nuova nei prati. E, a poco a poco, il verde sommergerà il grigiore di questi mesi.
A Roma vi sono molti parchi. E sarebbe possibile trovare lì attimi per entrare in sintonia con i processi naturali. Sfuggendo alla città. Al caos e all’alienazione che ne è il segno distintivo.
I parchi, i giardini sono sorti proprio per questo. Lo sviluppo della, cosiddetta, civiltà urbana ha progressivamente allontanato l’uomo dalla Natura. E dai suoi ritmi. Così, soprattutto dal ‘700 in poi, si è prestata cura che vi fossero queste oasi. Dove ritrovarsi a passeggiare, conversare, leggere. O meditare e contemplare in solitudine.

Un placebo, forse. Ma efficace. Perché dava respiro non soltanto al corpo. Alla mente e, per chi vi crede, all’anima. Leggere Ernst Jünger è ritrovare anche questo. L’importanza dei parchi, dei giardini come porte, o pertugi attraverso i quali entrare nella Natura. Dalla quale ci siamo allontanati. Non scientemente. Forse perché, come Dante nella Selva Oscura, avevamo la mente obnubilata da un sonno profondo. E privo di sogni.
Però i parchi di Roma sono ancora proibiti. E se li riapriranno, come dicono, vi si dovrà accedere con… le dovute precauzioni. Ovvero bardati come se si dovesse affrontare un attacco chimico.
Sono, in fondo, maschere. Di un ben triste Carnevale… ma tiro dritto. Ne ho già parlato, e sarei ripetitivo. E noioso.
Tuttavia rappresentano bene il punto d’arrivo di una cultura dell’artificiale che si è costruita tutto intorno a noi. Negli anni, nei decenni. E della quale siamo stati tutti in certa misura complici.
Perché i deliri di onnipotenza del Conte Zio e dei suoi risibili Bravi, hanno trovato terreno fertile. Dissodato e preparato da tempo. E ben pochi disposti a contrastarli.
Il mito della salute fisica, che ha come corollario il sentirsi perennemente malati. L’ipocondria come stile di vita.
Il mito dell’igiene parossistico. Che ti fa vedere ogni contatto come pericolosa minaccia. E la Natura come un nemico. Il mito dell’immortalità biologica. Che ti fa condurre un’esistenza dominata dalla paura della morte. E quindi non ti fa vivere.
Tutto questo preesisteva al, più o meno, fantomatico Covid. Alle trame di BigPharma.. Alla tirannide dei mediocri e degli ignoranti compiaciuti di esserlo. Il terreno era fertile.

Quando ero ragazzo si andava a scarpinare in montagna. Per ore. Giorni talvolta. Si dormiva sulla terra. Sacchi a pelo. Insetti, mosche, formiche. Si mangiava accanto al fuoco del bivacco. E nei piatti, o meglio sorta di gavette, cadeva di tutto. Si beveva in cinque, sei dalla stessa borraccia. Favoriva l’immunità di gregge, si potrebbe dire… Ma, in sostanza, si viveva come sempre gli uomini avevano vissuto. Sin dai primordi. Dai remoti avi cacciatori raccoglitori.
Poi… La ricerca ossessiva di un mondo asettico. La paura della Natura. Che è paura della Vita. Multiforme, invasiva e pervasiva. Oddio, ci sono delle formiche in cucina… E vai con disinfettanti, veleni e tossici per uccidere… La vita, alla fin fine. Che è ciò che realmente ci fa più paura. Abbiamo avvolto il mondo nel cellophane. Viviamo ibernati, in una sorta di animazione sospesa. Come in un film distopico. O in una parodia di Luis di Funes…
Guardo la pioggia di Febbraio. Sta ruscellando, fresca, sull’asfalto fangoso. Trascina via detriti. Tra questi, un paio di mascherine lorde e fradicie, abbandonate al suolo.
L’immagine della nostra inciviltà.