Raffaele Floris, La macchina del tempo. Poesie 2018-2021, puntoacapo, Pasturana 2022
Anche lo spazio-tempo, a dire dell’astrofisico Stephen Hawking, presenterebbe delle “scorciatoie” (wormholes) in grado di collegare luoghi e periodi fra loro distanti e diversi, e ad una velocità prossima a quella limite della luce sarebbe possibile viaggiare nel tempo. Almeno nel futuro. Sarebbe comunque un viaggio in un’unica direzione, come nel famoso romanzo di Wells, mentre viaggiare nel passato colliderebbe con una serie di paradossi praticamente insormontabili. Con i quali, per ora, solo la fantascienza è riuscita a misurarsi con successo. Pensiamo ovviamente al film Back to the Future diretto da Robert Zemeckis. Ma lì l’intenzione che muove il protagonista è quella di correggere il passato, di modificarlo. Tutt’altro invece, è l’intento di Raffaele Floris, che in questa sua ultima plaquette di poesie si propone di salvaguardarne alcuni momenti privilegiati e, con essi, personaggi, luoghi e cose a lui cari, scampoli di umanità, immagini di una vita in cui il buono, il bello e il vero coincidevano ancora. E magari – gozzanianamente – «le rose / che non colse», «le cose /
che potevano essere e non sono / state ».
Il tempo che egli vuole salvare dall’entropia inesorabile non è tanto il chrónos quanto il kairós: è fatto cioè di momenti di grazia, di qualità, di tratti effettivamente ed affettivamente significativi. «La macchina del tempo» sarebbe – come dice il poeta nella lirica eponima – «un’occasione / che non vorrei per me, ma per i gelsi / custodi dell’autunno. È la finzione / degli anni, dei sentieri che non scelsi». Egli sa bene che «la macchina del tempo / è solo un trucco», alla stregua del «cielo finto», di uno sfondato trompe-l’oeil in una stanza, e non consente che avventure oniriche, ma non dimentica, con Shakespeare, che noi «siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita».
Ebbene, «tutto torna / nei sogni, qualche volta»: nei sogni, a volte, il viaggio à rebours ovvero l’accesso ad «una bolla temporale, / quasi ci fosse un solco», è davvero possibile. Tutto allora sta nel trovare il wormhole giusto, nell’«aprire un varco» verso il «punto dove il tempo non degrada». Perché il trucco funzioni, occorre montaliamente individuare il varco che ci introduca a un’altra dimensione, a una sorta di limbo dove ciò che conta davvero, quello che più ci sta a cuore, riesca in qualche modo a sopravvivere. Senza doversi arrendere all’«afasia dei giorni», all’inferno di una «vita-non vita» che si consuma in una trita e triste routine, «in abitudini di cieli / svuotati, gonfi di parole uguali, / dove il tempo è denaro e la gramigna / dei giorni amari ci è cresciuta dentro». Perché affannarci, perché accelerare la corsa rovinosa del tempo? Se, con Benjamin, sappiamo che «il progresso», o almeno un progresso così inteso, «è la catastrofe», che senso ha assecondarlo? C’è in tutto ciò una sorta di cupio dissolvi che si manifesta, sempre più spesso, in episodi di efferata disumanità, frutto dell’atroce nichilismo cui siamo assuefatti, in assenza di ogni fede salvifica, di «un roveto ardente».
Di «questo tempo di soprusi» e del «male oscuro / del mondo» Floris ci offre una serie di emblematici exempla che, ogni tre liriche, con regolare e studiata cadenza, tracciano quella che Ivan Fedeli, nella sua puntuale “Prefazione”, chiama «la geografia del dolore e della mancanza», «luoghi del non essere». Si va da Doel a Kano, da Damasco a Managua, da Daabad a Bangui, e via elencando, tutte stazioni di una via crucis in cui la negazione dell’uomo continua a celebrare i suoi nefandi trionfi, in una sequela ininterrotta di orrori. Questo è il nostro tempo, questo è il nostro mondo, e su questo hic et nunc il poeta insiste, marcando di deittici il suo dettato, in un assiduo gioco di dimostrativi che segnano leopardianamente la distanza tra l’oggi e lo ieri, tra “questo” e “quello”. Dove “questo” è appunto il presente, il mondo, anzi l’im-mondo, la geenna in cui viviamo e “quello”, invece, è quanto di bello e di buono del passato meriterebbe di essere salvato dal naufragio definitivo, dall’oblio. È da «questo lembo / di terra che ha estirpato le radici / dei salici, dei gelsi e delle viti», ma anche, più in generale, da questa dantesca «aiuola che ci fa tanto feroci», che muove l’amorosa ed elegiaca quête di Floris. La sua, però, è una ricognizione che non ha saldi punti di riferimento, non ha certezze e non ha nemmeno strumenti di inconcussa affidabilità, se non la metrica tradizionale, che egli peraltro maneggia con impeccabile maestria, quasi con sprezzatura: a cominciare dall’endecasillabo e dalle quartine, ora sciolte, ora variamente rimate (si veda, in particolare, quel pezzo di bravura che è la lirica “Perduta luce”, con tanto di studiatissime rimalmezzo) ma sempre in numero di tre. Ed ogni tre liriche – come abbiamo già detto – s’interpongono, più narrativi che evocativi, quasi epici nella loro crudezza e nel ricorso sistematico all’endecasillabo sciolto, gl’intermezzi che aprono squarci vividi di vita offesa, dilatando a dismisura gli orizzonti geografici della raccolta. Siamo ben lontani qui dall’àmbito, tutto sommato circoscritto e di crepuscolare temperie, che al poeta è familiare, eppure egli lo sente come se fosse suo e ne soffre dal vivo la violenza disumana, lo strazio delle vittime, «la strage degli innocenti» che là «si consuma, nel silenzio / del mondo». Questi inserti fungono, per così dire, da basso continuo ed evocano uno sfondo epocale – quello del “nostro tempo” – da cui echeggiano voci di morte e di martirio. E chi vive, chi – come il poeta – è «ancora qui», ha l’impressione di parlare «dal profondo» (come David nel suo salmo penitenziale).
Questa, del resto, è la condizione umana: «È questo ciò che siamo: / radici, foglie, tronchi, bulbi, steli. / E lacrime domani. Ci nutriamo / di neve nell’inverno degli sgeli». La vita è una deriva e – come diceva Gramsci – «il tempo […] è un semplice pseudonimo della vita». Cotidie morimur (Seneca) insomma, ed anche Floris sembra più volte assimilare in un’endiati vita e tempo, vita e morte. A volte lo fa ricorrendo metaforicamente alle stagioni, al flagrare della luce nei cortili, al suo furoreggiare estivo, al suo attenuarsi e al suo definitivo congedarsi; altre volte all’immagine eraclitea del torrente (o del fiume), che ora tracima, ora si riduce a uno stento rigagnolo e infine congela. La vita è un fuoco breve, un cielo che s’accende a tratti e a tratti incupisce e si spegne. È la pianta che “foglia e fiora” per poi spogliarsi della sua gloria e mettere così a nudo «il disinganno / dei rami senza linfa».
Il tempo è anche atmosferico: è sole, pioggia, vento, neve, nebbia. Ad evocarlo valgono la meridiana, la clessidra, il diario, l’almanacco. Ma è soprattutto l’inreparabile tempus dei poeti latini, edax rerum, invida ætas. E se il tempo come epoca d’infernale barbarie coinvolge e sconvolge il poeta suscitandone sdegno e pietas, il tempo nella sua versione corrosiva o devastatrice (viene in mente la metafora montaliana della «devastante ruspa») lo ossessiona. Con lui ingaggia una lotta a corpo a corpo, senza quartiere. La poesia è la sua lancia di Astolfo o, meglio ancora, la “macchina” con cui, nell’impossibilità di vincere l’avversario, tenta di arginarne la rovinosa rapina, di rallentarne il corso, di estenuarne l’impeto. È la sua avventura e lui l’affronta talora con convinzione, talaltra con esitazione, tra scettico e disincantato, sapendo in anticipo che si tratta di un’impresa donchisciottesca: «Rincorrere parole sostenibili / non servirà, non resterà più niente / di noi, sciame perduto d’invisibili». In ogni caso sente il bisogno, controcorrente o – per dirla a suo modo – «controvento», di estraniarsi dallo strepito e dal fragore del mondo, un bisogno acuto di silenzio e di penombra, di raccoglimento e di tregua: «Ce lo chiede / la vita di fermarci e di guardare / il cielo nello specchio». Di contemplare (e decifrare) in filigrana il passato. Di trattenere cose e persone, anche per poco, «sul crinale del tempo», sulla soglia del nulla. Al limitare di Dite.
Quella della soglia è un’immagine che ritorna con frequenza nei versi Floris: può essere la soglia di una stanza, di un giardino, di spazi a loro modo sacri, in quanto santuari laicamente consacrati agli affetti, reliquiari di memorie o, meglio, di cimeli da cui si sprigiona proustianamente (ma potremmo anche dire gozzanianamente) la suggestione del passato. «Quanta vita / c’è dentro quelle cose!» Anche se quei cimeli non sono in fondo che «buone cose di pessimo gusto», hanno pur sempre un alto valore metonimico e serbano una vis evocativa impressionante, in grado di mettere in moto «la macchina del tempo». Lì sta la chiave del gioco che consente di riattivare il carillon e rianimare il teatrino dei ricordi. La soglia, allora, è il varco per entrare in un’altra dimensione, dove tutto è sfuocato, larvale, in penombra. Ai confini indefiniti della realtà. Dove l’assenza in qualche modo si tradisce, dove si muovono ombre, presenze fantasmatiche che si negano agli abbracci, che a toccarle si dissolvono. Un po’ come avviene nelle catabasi classiche.
Questo spiega l’esitazione che a volte trattiene il poeta sulla soglia. È una situazione che diremmo pascoliana. Chi non ricorda la madre al cancello di “Casa mia”, nei Canti di Castelvecchio? Pascoliano è pure il tono colloquiale di talune liriche che presuppongono un interlocutore, un “tu” che non è sempre “istituzionale” o un semplice sdoppiamento dell’io, ma che resta nell’ombra e non si fa sentire: delle reazioni di questa «muta presenza in filigrana» è il poeta a farsi talora interprete. Ed è il poeta che mediante amorose ricognizioni passa in rassegna ciò che resta del passato o di una persona per trarne il carburante necessario al suo viaggio a ritroso. Si spiega così l’assiduo ricorso all’enumeratio, per lo più triadica. Così egli ritenta l’impresa di Orfeo, pur consapevole di rischiarne l’esito infelice: «Forse scrivo in malafede» – confessa egli ad un certo punto – «queste parole che non hanno senso», ma non può farne a meno: «scrivo per me, per lei, per quel domani / che non si sa, per quei singhiozzi strani, / sistolici, votati allo scompenso».
Ciò che resta, però, è ben poco, tanto che gl’interrogativi accorati e gli sconsolati ubi sunt? si rincorrono di lirica in lirica. E l’elegia non di rado diventa trenodia. Non c’è comunque alternativa: «il poco che ci resta» e ci «appartiene», fosse anche soltanto un «muro storto di mattoni e sassi», «non lascerà che la tempesta / travolga tutto», perché «vive, eternamente». D’altra parte sono così pochi «i gesti / che contano, che possono cambiare / davvero il volto stesso delle cose». E rendere il mondo (e il tempo stesso) più umano. Defilarsi bisogna, bisogna lasciare spazio alla contemplazione, alla poesia: che non è solo un orpello dell’esserci o un entusiasmo momentaneo, tanto meno un eccitante o un intrattenimento: la poesia è disvelamento aleteico, accesso all’essere. «Nessuna cosa è dove la parola manca» e mai come ora, «nel tempo della povertà» (Heidegger), ora che la sera del tempo mondano va verso la notte, si avverte l’esigenza del«potere riparatore della poesia» di cui parla Seamus Heaney. Perché la poesia è appunto «l’arte del silenzio» che ci addita il modo, creaturale e sommesso, di «abitare», sulla scia di Hölderlin e di Heidegger «l’ombra cava dove si consuma / la vita» nell’assenza di ogni fede. Orbene, è proprio sull’arte del silenzio che, nella «notte del mondo», fa affidamento Floris nella sua difficile scommessa di «custode dell’essere», conformandosi all’esempio del sacerdote antico che ai fedeli in procinto di varcare la soglia del tempio raccomandava di tacere (favete linguis) onde prestare ascolto alla voce del dio.