Nelle scorse settimane Electomagazine aveva, più volte, sottolineato i rischi di affidare le missioni più pericolose delle guerre alle truppe dei mercenari. Non solo a Wagner, nel caso russo, ma anche alle altre formazioni guidate dai signori della guerra. Non è che ci volesse una particolare capacità divinatoria. Era sufficiente rileggere la storia del Rinascimento italiano per rendersi conto di ciò che comporta la rinuncia ad un proprio esercito o anche solo la collaborazione con le truppe dei capitani di ventura. E non basta cambiare nome al ruolo del comandante per modificare la situazione.
Certo, a Mosca faceva comodo affidare a Wagner, e poi agli altri mercenari, il lavoro sporco in Africa o nel Vicino Oriente. Lasciando che Prigozhin accumulasse una fortuna economica impressionante. Ed ha fatto comodo utilizzarlo anche nella guerra in Ucraina, per sopperire alle gravissime carenze dei comandanti delle truppe regolari. E più andava avanti la guerra, più l’immagine della Wagner si rafforzava mentre si indeboliva quella di Shojgu, il ministro della Difesa che ha commesso una serie impressionante di errori tattici e strategici.
Di questo ha approfittato Prigozhin, non si sa se in accordo con qualcuno. Ma il nodo del problema non è se il comandante della Wagner si è venduto ad un maggior offerente, bensì se Mosca è in grado di fare a meno della Wagner. Non solo sul fronte ucraino ma anche negli altri Paesi in cui gli accordi con la Russia sono basati proprio sulla presenza delle truppe dei mercenari. E la marcia indietro di Prigozhin, dopo una trattativa con Lukascenko, pare indicare che Mosca ha assoluto bisogno dei mercenari. Anche perché queste ore di incertezza hanno favorito la sino ad ora fallimentare controffensiva ucraina.
Ore in cui Erdogan ha espresso solidarietà a Putin (ogni tanto la riconoscenza fa capolino persino nella politica estera) e l’Uganda si è detta disponibile ad inviare truppe per sostenere il Cremlino.
Ma, al di là della conclusione della vicenda, il segnale di profonda debolezza della Russia è arrivato forte e chiaro. In grave ritardo sotto l’aspetto economico, perché vendere gas e petrolio ed utilizzare gli enormi proventi per i vizi privati degli oligarchi non significa fare “economia” ma solo rinunciare ad investimenti strategici; totalmente assente sul fronte del soft power nella errata convinzione che fosse inutile; incapace di guidare il Sud del mondo ed i Non Allineati; incapace di una strategia di alleanze “forti” e stabili in Europa, al di là dell’Ungheria.
I successi ottenuti, soprattutto in Siria, si sono rivelati episodici. L’alleanza con l’Iran obbligata dalle circostanze mentre Pechino lavorava, strategicamente, per creare un asse Riad-Teheran da sfruttare in una fase successiva, legata anche alla penetrazione cinese nelle ex repubbliche sovietiche in sostituzione del ruolo russo.
Errori e carenze sul fronte internazionale che rispecchiano perfettamente il nulla cosmico interno. Non un’idea di sviluppo alternativa al capitalismo atlantista. E se la sinistra italiana si è suicidata nella rincorsa alle fissazioni ed alle pretese delle minoranze sessuali, la Russia ha fatto altrettanto pensando che l’unico problema da combattere fosse rappresentato da queste fissazioni. Troppo poco per un Paese che si considera “grande”.
Ora occorrerà vedere se Putin caccerà Shojgu o manterrà al suo posto il fallimentare ministro. E se seguirà la linea più militarista, voluta da buona parte dei suoi sostenitori, per assestare un colpo decisivo a Kiev. O se, in linea con Prigozhin, cercherà un’intesa con Zelensky. Ma i nuovi fans di Prigozhin, gli stessi che lo definivano “criminale nazista”, non si sono accorti che anche il leader della Wagner sostiene che le regioni annesse sono parte della Russia.