Simonetta Tosco, Punto d’origine, Reverdito Editore, Trento 2021
Parlare di un «giallo psicologico», per di più «singolare e moderno», quale, fin dalla copertina, si professa il libro, non è facile: anzitutto perché svelarne la trama toglierebbe ai lettori buona parte dell’interesse, ma anche perché si farebbe loro un dispetto imperdonabile, in quanto il giallo è come una partita a scacchi, come un gioco che ne impegna l’intelligenza chiamandola a collaborare alla soluzione di un problema, di un enigma, di un mistero. Il lettore, infatti, fa parte integrante del racconto: è grazie alla sua complicità che esso progredisce, procedendo dall’irrazionale al razionale. L’autore si sdoppia, mettendosi nei panni del lettore, immaginando l’effetto che può produrre su di lui. «Il lettore – ha scritto Thomas Narcejac – è l’unica fonte di movimento del romanzo poliziesco». Ed è quindi per rispetto nei riguardi dei potenziali lettori che in questa nostra disamina ci manterremo sulle generali.
Diremo pertanto che, come nella maggior parte dei “gialli”, il detective – chiamiamolo così – non è un ispettore di polizia o un professionista del ramo, bensì – come voleva Van Dine – un dilettante, nel senso che si trova casualmente, e perfino obtorto collo, coinvolto in un complicato affaire che – è il caso di dirlo – lo porterà molto lontano. Nel tempo e nello spazio. Fabio Maffei è un affermato psicologo torinese che da qualche tempo, a séguito della separazione dalla moglie, sta attraversando una crisi depressiva, cui cerca di rimediare «anestetizzandosi di lavoro». La situazione di partenza è dunque per certi versi paradossale e ci rimanda a quel passo del Vangelo di Luca in cui Gesù, riprendendo un midrash ebraico, dice: Medice, cura te ipsum. Ebbene, proprio affrontando il torbido caso che la sua stessa professione inopinatamente gli propone, il nostro strizzacervelli riuscirà alla fine a uscire dall’angosciosa impasse in cui si era cacciato.
Riuscirà cioè a risalire al suo «punto d’origine», vincendo l’irresolutezza di cui era vittima, per essere finalmente se stesso. Quod sis, esse velis, insomma: “sii te stesso”, come ammoniva Marziale. E giustamente il suo maestro gli farà osservare che «la vita non è così lineare come sembra superficialmente e soprattutto ognuno percorre il suo cammino alla velocità a lui più adatta. Non esistono rotte predeterminate, siamo noi che scegliamo quando e cosa fare. Siamo gli artefici del nostro destino». Ed è per questo che dobbiamo spogliarci delle maschere (o le corazze) dietro cui la vita c’induce talora a nascondere la nostra autenticità. Risalire al punto d’origine è pertanto indispensabile per ritrovarla. Per ritrovarci.
Simonetta Tosco, che è appunto una psicologa, fa leva sulla tecnica dell’ipnosi regressiva, trattata «in modo scientifico», per guidarci alle pratiche terapeutiche della sua disciplina, ma, genialmente, ne amplia il raggio d’azione al di là dei suoi stessi limiti scientifici, collegandosi al tema della trasmigrazione, post mortem, dell’anima – immortale – in altri corpi. Tema che non è soltanto di talune religioni orientali o di certe scuole teosofiche, bensì anche del cristianesimo delle origini, come l’Autrice stessa dimostra citando Origene, per il quale «l’anima non ha principio né fine. Ogni anima entra in questo mondo fortificata dalle vittorie oppure indebolita dai difetti della vita precedente. Il suo posto in questo mondo, quasi dimora destinata all’onore o al disonore, è determinato dai suoi precedenti meriti. Il suo operato in questo mondo determina il posto che essa avrà nel mondo successivo».
È dunque su questo espediente narrativo che la Tosco imposta il suo patto con il lettore, dando, non senza ironia, libero spazio alla fantasia: libero ma non del tutto gratuito, se, sulla scia di Jung, postuliamo l’esistenza di un inconscio collettivo. O se, con Shakespeare, crediamo che tra cielo e terra vi siano più cose che nelle nostre filosofie. Comunque sia, trattandosi di un’opera letteraria e non di un trattato scientifico, l’espediente funziona a meraviglia. E visto che l’Autrice è appassionata di storia, non ci sorprenderà più di tanto venire sbalzati indietro di secoli, al tempo della crociata contro gli Albigesi, e dall’odierna città di Torino trovarci balestrati in Occitania, dove, nel castello di Montségur, ebbe luogo l’estrema resistenza degli eretici catari. Di là, poi, con un salto vertiginoso, l’azione si sposta più vicino a noi, nelle Langhe, dove nel 1943 una formazione di partigiani tenta di contrastare l’occupazione tedesca.
Tempi e luoghi diversi, dunque, come si addice al genere romanzesco, ma accomunati, in ogni caso, da eventi tragici che hanno lasciato indelebili scie di sangue. E che, grazie alla sagacia narrativa della scrittrice, ci troviamo a rivivere con partecipe apprensione. A legare tra loro tempi e luoghi così distanti sono i personaggi, lo psicologo e il suo paziente, un imprenditore senza scrupoli che coltiva ambizioni politiche, ma deve fare i conti con le conseguenze negative di un trauma non superato. Le sedute terapeutiche che si susseguono con regolarità innescano una serie di transfert e di controtransfert che obbligano i personaggi a mettersi in discussione, a fare luce sugli oscuri grovigli interiori che ne condizionano penosamente l’esistenza.
Al di là delle mutevoli identità, c’è un duplice fil rouge, quello dell’ignavia da una parte e quella del tradimento dall’altra, a garantire una continuità tra i personaggi e i loro alter ego: di conseguenza, tra l’oggi e lo ieri, prossimo o remoto che sia. Ma questo non significa che gli individui siano schiavi del loro passato né, tanto meno, dell’ereditarietà. La nostra vita, in altri termini, non è una pagina già scritta. Tutto dipende, in ultima istanza, da noi: a patto di non lasciarci irretire dai condizionamenti e dalle circostanze; a patto cioè di riuscire a comprendere chi siamo e la natura di ciò che davvero vogliamo. Questo può aiutarci a recuperare le nostre relazioni con gli altri, in particolare quelli che amiamo, ma anche a ravvederci e a riscattarci dal male compiuto. Come appunto succede all’ineffabile Fausto Mannironi, il paziente in cura, che in un tardivo sussulto di dignità (e di consapevolezza) si sacrifica per frustrare, in un crescendo quasi cinematografico di suspense, l’ennesimo progetto criminale da lui stesso innescato.