Mio figlio sta guardando dalla finestra. Fa freddo. Molto per Roma. Ma non nevica. Per fortuna, aggiungo, perché qui la città, con una spruzzata di neve appena, si paralizza. Ancor più del solito.
“Papà, ma perché qui non nevica mai? Eppure è inverno…”
Sai, qui è difficile che accada. Roma ha un clima mite. Dicono che sia una fortuna…
Scuote la testa.
“Che inverno è senza neve? Non puoi giocarci. Non puoi fare un pupazzo…”
E rientra, deluso, nella sua stanza.
A guardare il tablet, immagino. Di recente gli è presa una vera e propria mania per video e film che hanno come protagonista un…pupazzo di neve. .. In genere horror. Pare che siano molto di moda tra gli adolescenti le versioni gotiche dei personaggi dell’immaginario natalizio. Santa Claus trasformato in un pericoloso serial killer. E, soprattutto, un pupazzo di neve, impropriamente chiamato Jack Frost, che commette sanguinosi delitti. Utilizzando, prevalentemente, il potere di controllare il ghiaccio.
Lo so. Non va bene. E dovrei proibirgli certe visioni. Ma so che otterrei solo l’effetto contrario. Di farlo intestardire. Ai miei tempi non c’erano tablet e video. Ma i fumetti. Anche quelli dell’orrore. Violenti e paurosi. Ricordo la serie de “I racconti di Zio Tibia”. Vietatissimi dai genitori. Per non parlare del parroco. Li leggevamo in gruppo. Avidamente. Nel sottoscala di casa. E avevo meno anni di mio figlio oggi. Quindi…
Ogni generazione ha le sue paure. I suoi terrori nascosti. E ne è attratta. Per esorcizzarli. Come dicono gli psicologi. Che in generale non ne azzeccano molte. Con, naturalmente, vistose eccezioni.
Tuttavia la fascinazione che su mio figlio, come su tanti altri, esercitano i pupazzi di neve, terrifici o simpatici, mi trasporta, con la mente, ad altro.
Perché fare un pupazzo, plasmare la neve informe, poi disegnare una bocca, mettere una carota come naso (si può usare altro, lo so. Ma la carota è tradizione.). Poi, magari un cappello, una sciarpa. Due rami a simulare braccia e mani… Fare tutto questo è, in fondo, un atto…creativo.
Evoca la massima, e più folle, ambizione dell’uomo. Divenire Creatore.
È la storia del Golem. O, in ben altra dimensione, dell’Homunculus. La Quaballah e l’alchimia, l’ambizione di riuscire, padroneggeandi l’arte, a divenire Dio. O, per lo meno, un suo riflesso. Un Dio, però, fallace, imperfetto. Borges rende benissimo questo senso di incompiutezza nella sua poesia dedicata proprio al Golem. Perché il kabalista, il mago, l’alchimista, può forse giungere a produrre qualcosa che può sembrare vita. O, per lo meno, una sua simulazione. Ma mancherà sempre, in codeste creazioni, l’elemento fondamentale. Che non è, né può essere solo fisico. O, se preferite, biologico. Una scintilla di intelligenza. Una qualche luce interna. Un soffio… Se ci credete, mancherà pur sempre l’anima. E infatti il Golem della tradizione asckenazita è mera forza bruta. Neppure a livello animale..
Mary Shelley è sicuramente partita da qui, dalle leggende dei vecchi cabalisti, per scrivere il suo Frankenstein. Con una intuizione geniale. Ai cabalisti, al rabbino di Praga, sistituisce lo scienziato. Il dottor Frankenstein, appunto. Che, come recita il sottotitolo, è il Prometeo Moderno. Colui che osa tentare di strappare a Dio il fuoco della vita. E il potere della creazione.
La Scienza, quella che, oggi, è il nuovo Moloch che si deve adorare in modo totalmente acritico e prono, insegue da tempo la creazione del suo Golem. E chi detiene il potere scientifico, che è, poi, anche e soprattutto economico, si sente Dio. Pretende di dominare il clima, di determinare quanti e quali uomini abbiano diritto di vivere. Di clonare la vita e di selezionare la genetica per generare l’uomo perfetto. E fisicamente immortale. Al confronto il buon dottor Frankenstein era un animo ingenuo. Di poche ambizioni e pretese.
Soprattutto ben diverso era l’atteggiamento morale di rav. Jehuda Löw ben Bezalel, là, nel vecchio quartiere ebraico di Praga. Che inseguiva la conoscenza delle leggi della vita per conoscere il suo, misterioso e celato, Dio. Non per negarlo. E sopratutto, senza pretendere di sostituirsi a lui.
I pupazzi di neve…. In fondo sono una perfetta metafora del vecchio Golem. Una metafora moderna. Modernissima. Possono essere trastulli per bambini. Favole. Ma favole che possono diventare horror. Gotiche. Come quelle che affascinano mio figlio. Incubi terrificanti. E l’orrore grigio della nostra quotidianità.
Però, sempre e comunque, restano pupazzi fatti con la neve. E prima o poi la neve si scioglie. E non resta più nulla.