Ci sono liste e liste.. Nei giorni scorsi è stata riproposto il lunghissimo elenco dei firmatari del famoso documento contro il commissario Calabresi, considerato il responsabile – più o meno diretto – della morte dell’anarchico Pinelli. Dal punto di vista storico non ha la benché minima importanza che, successivamente, la magistratura italiana abbia considerato innocente il commissario. Perché la credibilità della giustizia italiana nelle vicende politiche è davvero scarsa.
La stessa magistratura, peraltro, che aveva scatenato la consueta caccia alle streghe inventandosi l’immancabile “pista nera” per il conseguente assassinio di Calabresi, con l’altrettanto immancabile sostegno dei giornalisti di regime. Eppure persino le canzoni, urlate in piazza perché le radio private non c’erano ancora, avevano assicurato che la vendetta avrebbe colpito il commissario. Le avevano ascoltate tutte, quelle canzoni. Tranne i magistrati. Che hanno dovuto attendere una confessione di uno dei responsabili dell’omicidio per arrivare ad una condanna lieve lieve, tra l’altro neppure scontata interamente dal principale responsabile.
Ma ciò che, a 50 anni di distanza, indigna le anime belle del nuovo corso della politica italiana, a destra come a sinistra, è la presenza – nel documento di condanna di Calabresi – di buona parte dei nomi della cultura italiana dell’epoca. Non solo Dario Fo e Franca Rame, come da copione in qualsiasi raccolta di firme dell’epoca, non solo Camilla Cederna e Inge Feltrinelli, ma anche Umberto Eco, Bellocchio, Gae Aulenti, Bertolucci, Basaglia, Colletti, Furio Colombo, Argan, Giulio Einaudi, Gillo Dorfles. Più di 700 nomi del giornalismo, della letteratura, del cinema, dell’arte. Compresi alcuni sfigati che, inserendo la propria firma, speravano di ottenere un briciolo di notorietà in mancanza dei social.
Qualcuno dichiarò, in seguito, di essere stato inserito a sua insaputa. Qualcuno precisò, subito, di non essere d’accordo. E qualcuno, all’italiana, prese le distanze quando il vento era ormai cambiato.
Però il documento resta importante per comprendere un’epoca. In fondo ricorda molto la battuta del perfido Churchill a proposito della propensione al tradimento degli italiani: “Un giorno 45 milioni di fascisti ed il giorno dopo 45 milioni di antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dal censimento”.
La cultura italiana “doveva” essere schierata da quella parte perché era da quella parte che con la cultura si mangiava. Perché il Pci – che aveva tradito Gramsci ma ne aveva imparato la lezione sull’egemonia culturale – aveva messo in piedi una efficientissima macchina per la creazione del consenso attraverso il cinema (“L’arma più forte”, l’aveva definita Mussolini e gli ex fascisti trasmigrati nel Pci avevano imparato anche quella lezione), la letteratura, la musica, la pittura e la scultura. Anche grazie ai rubli di Mosca.
Chiedendo, in cambio, qualche firma, qualche dichiarazione. Firme che poi avrebbero sottoscritto i documenti anche della sinistra extraparlamentare. “Mi si nota di più se firmo o se non compaio nell’elenco?”. Sul fronte opposto, invece, occorreva un atto di eroismo per firmare il manifesto degli intellettuali di destra che si riunirono a Torino quasi in stato di assedio e con i soliti quotidiani impegnati a denigrare chiunque avesse un bagaglio culturale non allineato.
Adesso, però, è assurdo ripubblicare quegli elenchi per usarli come arma contro coloro che non avevano creduto alla morte di Pinelli per un virus nonno del Covid (perché la tesi del suicidio aveva la medesima credibilità del nonno del Covid). Ci pensano già alcune trasmissioni televisive a pubblicare vecchie liste di nomi da trasformare in liste di proscrizione attuali per mettere all’angolo chiunque non si allinei al pensiero unico obbligatorio.