La storia ci insegna che, molto spesso, le facili vittorie sono foriere di pesanti sconfitte: per solito, chi vince facilmente, tende a dimenticare la prudenza e a commettere fatali errori di sottovalutazione dell’avversario.
Questo accade tanto nelle guerre tradizionali, in cui comandanti, troppo convinti di essere un novello Alessandro Magno, buscano severissime bastonate, come nelle guerre asimmetriche: nei conflitti liquidi, nelle campagne terroristiche e, perché no, in quelle criminali.
Le Brigate Rosse, ad esempio, erano state, fin dall’inizio, massicciamente infiltrate: tuttavia, la loro fine venne decretata dalla decisione strategica dei capi BR di alzare il tiro, con l’attacco al cuore dello Stato. Non starò qui a sofisticare su chi ci fosse o meno dietro quei quattro cialtroni sanguinari ed invasati: mi interessa sottolineare come, facendo il passo più lungo della gamba, i terroristi fossero stati indotti a credersi invincibili dai numerosi, chiamiamoli così, successi: non c’era settimana che qualche vittima non cadesse sotto il loro fuoco potentemente geometrico.
Dopo il rapimento Moro, le istituzioni, finalmente svegliatesi dalla bambola, decisero di fare sul serio e attaccarono su due fronti: le leggi speciali e i reparti speciali. Insomma, quando cominciarono ad ammazzare anche loro, i politici si resero conto che la situazione era speciale e necessitava di azioni speciali: alla buon’ora! La legge sui pentiti, insieme ai Carabinieri di Dalla Chiesa, in poco tempo, cancellò il terrorismo.
Oggi, a un dipresso, ci troviamo nella stessa situazione con la criminalità d’importazione: da noi, adesso come adesso, nigeriani e albanesi, marocchini e romeni vincono facile. La legge li agevola, avendo introdotto, in decenni di benessere e tranquillità, tutta una serie di addolcimenti premiali per i delinquenti e per i condannati e, al contempo, avendo colpevolizzato le forze dell’ordine, in pratica imbavagliandole e ammanettandole: un diritto garantista per i criminali e, fondamentalmente, sbilanciato.
Così, all’estero, si è sparsa la voce che, per chi commette reati, l’Italia sia il paese di Bengodi: abbiamo rastrellato il pattume di mezzo mondo, attratto dal pollaio indifeso e aiutato da un’accoglienza del tutto aselettiva, fino al masochismo.
Così, adesso, siamo in grave imbarazzo nei confronti della marea montante di questa nuova delinquenza, apparentemente priva di regole e assai più spietata e feroce della nostra, che già era una piaga mica da ridere.
Ma, come scrivevo poco sopra, le vittorie troppo facili e, in questo caso, l’apparente impunità, alla fine fanno commettere errori di valutazione: prima o poi, questi simpaticoni la faranno troppo grossa, a forza di spostare in alto l’asticella del crimine. Oppure, la somma di tanti modesti schiaffoni farà, alla fine, scattare la molla: e, perfino nei palazzi del potere, si accorgeranno che la situazione è speciale e necessita di soluzioni speciali. Solo allora inizierà la guerra.
Non è vero affatto, come scrive qualcuno, che siamo in guerra: per adesso, stiamo solo subendo un attacco, senza alcuna reazione, e questo non si può definire guerra. La guerra verrà quando lo Stato accetterà l’idea di essere in guerra: accetterà, insomma, lo scontro. E reagirà con le energie che solo lo Stato può mettere in campo: leggi speciali e forze speciali, come contro le BR o contro la mafia. E, allora, la spocchia dei delinquenti d’importazione si trasformerà in sacrosanta fifa: proprio come la sicumera dei terroristi, una volta blindati. Ma ci vuole del tempo ancora e, purtroppo, ancora molto sangue: dobbiamo ancora patire, prima di risorgere.