Diceva Chesterton che guardava sempre con sospetto coloro che ostentavano disinteresse per il cibo. Dubito, aggiungeva, del loro buon gusto in tutti gli altri campi…
Era un robusto mangiatore. E si vedeva dal fisico ben più che corpulento. Ma era, anche, un uomo di grande, raffinato, gusto. A tavola così come nella scrittura. Una nota comune con altri grandi delle lettere di ogni epoca.
E mi viene in mente il Pulci, con la straordinaria abbuffata di Morgante e Margutte. Rabelais, il cui Pantagruel è divenuto esemplare di banchetto sontuoso… E Carlo Emilio Gadda, l’ingegnere delle nostre lettere, che con la sua scrittura esatta, precisa come una geometria, ti descrive in tal modo il Risotto alla Milanese, da fartene sentire il profumo. Con conseguente acquolina in bocca…
E poi potrei parlare del Marquez di “Cent’anni di solitudine”, l’incredibile agone gastronomico. Di un romanzo, che mi inquietò e colpì da ragazzo, come “Il cuoco” di Henry Kressing. E divagare ancora su Falstaff, spingendomi a disturbare l’ombra di Petronio ….
Ma basta così. Non è del cibo in letteratura che voglio parlare. Piuttosto dell’importanza dei sapori. E di quanto sia importante la loro.. diversità. Che esprime, in certo qual modo, non solo il buon gusto dei singoli, come dice Chesterton, ma anche l’anima dei popoli.
Perché certo non è vero che noi si sia ciò che mangiamo, come ebbe a dire un qualche teorico del più rigoroso, e ottuso, materialismo, di cui non ricordo il nome. Cosa che, sinceramente, non mi turba affatto…
Però è sicuramente vero che noi si mangi per come siamo. E che molto di un popolo e di una cultura si possa dedurre sedendo a tavola.
Il, famigerato, Brodo Nero degli spartani diceva già molto sulla dura disciplina di quella stirpe. E spiegava Leonida e le Termopili più di tante dissertazioni storiche.
E Franz Herre, nella sua “Storia del buon gusto in cucina” compie un vero e proprio periplo storico geografico intorno al mondo. Tracciando un profilo della civiltà umana che va ben al di là della curiosità gastronomica.
I popoli e la loro anima si rivelano anche a tavola. Di recente sono ritornato in Veneto, dopo molti, troppi anni di assenza. E in una “cicchetteria”, che coniuga la tradizione delle nostre vecchie osterie con una eleganza da enoteca, ho potuto risentire sul palato gusti che avevo quasi dimenticato.
L’ariosa sapidità del baccalà mantecato, una spuma bianca su crostini di pane. Gli scampi alla busara, forti e piccanti come le terre d’Istria di cui la ricetta è originaria. Le schie con polenta, che ti fanno sentire la laguna e le sue sfumature tra il salso e il dolce. E le cape sante, indescrivibile piacere già per gli occhi…Non vi dico per il palato…
Ho ritrovato me stesso. Una parte di me almeno. Dimenticata troppo a lungo…
İntendiamoci, io apprezzo, e molto, i sapori dei piatti romani. Forti, decisi, gustosi. Pieni. I fagioli con le cotiche, i fegatelli nella rete, la coda alla vaccinara. La, proibita, pajata.
Ma sono gusti diversi. Rivelano un’anima diversa. Da un lato abbiamo le smargiassate di Rugantino. Dall’altro le piroette di Arlecchino…
Anime diverse. Sapori diversi. La, incredibile varietà e bellezza del Mondo si esprime, anche, così.
Una varietà che si stava perdendo. Hamburger ed hot dog da Mosca a New York. Da Pechino a Buenos Aires. Da Roma a Stoccolma.. Salsa ketchup che annichilisce ogni altro sapore ovunque…
Un mondo senza varietà. Uniforme. Alla fine…insapore.
Sarà anche bello sentirsi tutti uguali… ma io continuo a preferire le differenze. A tavola e altrove.
Sarà anche bello il sogno della globalizzazione, e brusco, anzi brutale il risveglio di questi ultimi tempi…
Però, a ben pensarci… Preferisco la coda alla vaccinara. Le cape sante. E, ad essere sincero, anche il borsch…