“Scusi prof…” la mascherina non nasconde gli occhi vivaci e sempre curiosi. È sempre lei, la brunetta.
Dimmi….
“Lei ha detto che Goldoni ha lasciato delle Memorie, ma le cita sempre con il titolo in francese…”
Sì. Perché in francese le ha scritte. Il francese era, allora, la lingua internazionale soprattutto della cultura e, come si usa dire oggi, della comunicazione…
Però il teatro di Goldoni è in italiano…
Prevalentemente. Ma nell’ultimo periodo, quando si era trasferito a Parigi per lavorare per la Commedie Italiènne, scrive anche alcune commedie in francese. Non tra le più importanti, certo….
” Ma non è strano? Intendo dire che uno scriva in una lingua che non è la sua…”
Beh, oggi forse, anche se in alcuni campi specifici si tende ad usare l’inglese. In saggistica, però, non in opere letterarie… Ma nel ‘700 non era così insolito. Anzi alquanto frequente. E anche in altri periodi… I letterati erano, per lo più, poliglotti…
“Polli… che? E che significa?” gli occhi del coatto di turno appaiono straniti. Sospiro. E spiego.
Poliglotta è colui che è in grado di parlare più lingue. Anzi, di pensare in più lingue. Che non è solo conoscere una lingua diversa dalla propria. Ma possederla. Al punto di avere… più anime.

“E mo’ che c’entra l’anima con la lingua che si parla, prof.?”‘
C’entra e molto. Vedete, uno dei più antichi poeti latini, Quinto Ennio, che Cicerone chiama “pater” considerandolo il vero padre della letteratura latina, diceva di avere tre anime. Perché era di famiglia osca e in quella lingua era cresciuto. Poi aveva appreso a padroneggiare il greco. Quindi, giunto a Roma, era divenuto poeta. In Latino. Tre lingue. Tre anime. Come lo scrittore triestino Scipio Slataper. Che cadde sul Carso combattendo per l’Italia. Ma aveva sangue slavo. Ed era cresciuto nella lingua tedesca. Anche lui diceva, e sapeva, di avere tre anime.
“Allora è un modo di dire…”
No. Non solo. La lingua non è solo uno strumento, diciamo così, di comunicazione. Esprime qualcosa di ben più profondo. Un modo di pensare. Di sentire le cose. Che cambia da popolo a popolo.
Così, chi possiede più lingue, ha la possibilità, scrivendo, di esprimere diversi modi di essere. Di raccontare le cose da diverse angolature.
Vedo sguardi perplessi. E c’è silenzio.
A questo punto… lasciamo perdere l’argomento della lezione. E tiriamo avanti. Tanto, il fantomatico Programma, ormai solo questo è. Fantomatico. E solo un pro forma. Basta che risulti agli atti. Che tu lo svolga… non interessa a nessuno…
Riprendo.
Dunque. Il ‘700,il secolo di Goldoni, Casanova, Alfieri… è per eccellenza il secolo del cosmopolitismo… Alt!
Blocco con un gesto uno dei coatti, che palesemente stava per dire :Ecchè c… è sto cosmo… Glielo ho letto negli occhi. Mascherina o non mascherina..
Vuol dire sentirsi cittadini del mondo. Non appartenenti ad un unico popolo. Ad un’unica cultura e tradizione. Gli uomini di cultura, gli intellettuali, diciamo così, si sentivano partecipi di qualcosa che andava al di là, anzi stava al di sopra dei confini degli Stati. Ed anche di quelli delle lingue. Jan Potocki era polacco. Fu sulle navi da guerra dei Cavalieri di Malta. Ambasciatore in Asia per lo Zar di Russia. Ma scrisse in francese il suo “Manoscritto ritrovato a Saragozza”. Il più grande romanzo del secolo. Uno dei più grandi di tutti i tempi. Non lo scrisse in polacco. Se lo avesse fatto ne sarebbe venuta fuori opera totalmente diversa….

“Perché? I polacchi non erano boni a scriive’ romanzi?”
Non è questo. Vi sono romanzi notevoli in lingua polacca. Anche se è una lingua che si è espressa di più nei canti epici. E nella poesia d’amore. Perché così è l’anima polacca….
Il francese è la lingua della ragione, della dialettica scintillante. Dell’aforisma fulminante. E delle grandi narrazioni….
No. Sto volando troppo altro. L’atmosfera… solo pochi continuano a seguire. Gli altri fissano il soffitto. Il vuoto. Vagano chissà dove..
Devo cambiare registro…
Vedete.. Non è diverso quando parlate, o per lo meno tentate di parlare italiano – qualche risatina soffocata – e quando invece vi esprimete, si fa per dire, con quei grugniti che chiamate romano?
Adesso le risate crescono di tono…
“A professo’, noi se parla come se magna… E se magna bene, va, che je piace anche a lei, carbonara e fagioli co’ le cotiche..” perfetto. Il Boro è tempista. Un’ottima spalla…
Certo che mi piacciono… Ma è la lingua del Belli e di Trilussa. Le canzoni di Rugantino. Quelle che cantava Lando Fiorini…
” Un grande! Me ne parla sempre mi nonno… “
E certo, avrà la mia età.. Risate omeriche ora..
È una lingua il romanesco che esprime molto. Anche sentimenti, amore… Ironia e satira soprattutto, come poche altre. È la lingua delle maschere romane, per restare in tema di Carnevale. Meo Patacca…
“E er Conte Tacchia prof…. Solo questo è restato ora…”
Ancora per poco, spero…
Il Boro si alza e inscena un trenino, seguito dagli altri coatti in visibilio… Alla faccia delle regole Covid… Lo lascio sfogare. E avrei voglia di unirmi a loro.
Poi….

Però, vedete, se volete esprimere un amore diverso, non chiedere a Roma di faje dì di sì, ma parlare d’altro, di un Amore che va oltre il momento. Meno effimero… Allora il romanesco, forse non basta. Dovete usare la lingua tosca. L’italiano. La lingua di Dante, di Petrarca. Che tocca altre corde. Che evoca altre emozioni…
Suona la campanella. Mi accingo a lasciare l’aula bardato di maschera. Poi, la solita brunetta, e ti pareva….
“Ma lei prof… Alle donne che ha amato, in che lingua parlava?”
Come in che lingua. In italiano. Mica sono un poliglotta…
“Pensavo… al suo dialetto. Al veneziano – ammicca con gli occhi vivaci – la lingua di Goldoni. E di Casanova…”
Rido. Ed esco fra le risate…