Dal nostro inviato a Mosca
Una delle primissime cose che insegnano nelle facoltà universitarie di impronta internazionale, specie se attinenti al cosiddetto ambito delle scienze sociali come vale per l’ormai abusata politica internazionale, è l’importanza essenziale di un approccio metodologico marcatamente empirico e relativista, d’altronde l’unico utilizzabile quando l’oggetto della ricerca non appartiene al mondo naturale tipico delle scienze fisiche.
Pertanto, ogni sorta di valutazione derivante da considerazioni ideologiche e da metodi d’indagine esclusivamente qualitativi non sono meritevoli di attenzione. Ebbene, una di quelle cose che subito affiorano quando si studia, si vive e si respira la Russia per tempo, specialmente in fasi storiche come questa in cui il tifo da stadio la fa da padrone e prevale, assieme alle sensazioni epidermiche e alle emozioni, sulla conoscenza maturata sulle sudate carte leopardiane, è che l’inimicizia storica tra Ucraina e Russia montata ad arte dall’informazione a senso unico e a reti unificate del lato occidentale dell’emisfero non è altro che, appunto, una fragilissima e strumentale costruzione artificiosa.
Tralasciando i dibattiti etimologici sull’origine e sull’accentazione della parola Ucraina – sulla quale troppi si sono riciclati puntualmente come linguisti e storici mentre occorrerebbe rifarsi alla buona Accademia della Crusca o al caro Пушкин o, perché no, anche ad una conoscenza seppur introduttiva della lingua russa (in tal caso sarebbe interessante riportare anche l’uso e il significato, in lingua russa, del termine Украина se preceduto da в/на, tanto quanto il significato dei termini окраина e край, anche per introdursi alla geografia politica di un popolo, come quello russo, assai complesso e diviso a sua volta tra русские e рoccияне) – come anche ignorando le innumerevoli elucubrazioni di manovratori della storia a scopi ideologici, per capire che le cose non stanno come prediletto dalla nostra versione dei fatti – noi che oramai siamo impostati per ragionare in termini manicheistici se non proprio maccartisti (d’altronde faccenda già fin troppo nota, e basterebbe solo ricordare il primo anno e mezzo di pandemia e i discorsi che molto erano in voga sul “virus cinese” e il popolo uiguro nei circuiti mediatici per ravvisare delle evidenti somiglianze con l’attualità) – non occorre molto se ad essere citata in causa è la quotidianità stessa.
D’altronde il concetto dell’”autodeterminazione dei popoli” è roba delicata, suscettibile delle elaborazioni politiche e delle legittimazioni morali delle grandi potenze globali, dal momento che la Carta ONU, il pilastro su cui dovrebbe basarsi la sicurezza internazionale e la società civile mondiale, trova difformità di interpretazione sugli articoli 1-11 persino nel parere rilevante di due organi fondamentali tra i tanti demoltiplicatisi negli anni come la CIG e l’Assemblea ONU. E allo stesso tempo parlare di “autodeterminazione” in aree geografiche come i Balcani e l’area post-sovietica, nel passato recente tenute unite da esperimenti federali plurinazionali poi falliti, non è cosa affatto semplice se a subentrare sono processi di state-building, nation-building e contestazioni di historical legacy che, per definizione, sono caratterizzati da un alto tasso di conflittualità e politicizzazione delle istanze collettive.
Ebbene, tornando a quanto cominciato a elaborare sopra, basta accendere la tivù russa per notare che l’unico confine attuale esistente tra Ucraina e Russia è esclusivamente politico, così come il clima di odio reciproco creato ad arte di divide et impera a più livelli.
Accendendo il televisore, come dicevo, balza subito all’occhio come tra i tanti canali ve ne sia uno su tutti di entertainment, Пятница, originariamente ucraino, così come ucraini sono i tanti uomini e le tante donne di cultura e dello spettacolo in altri canali come ТНТ o Россия1; allo stesso modo, sorprende che nelle maggiori trasmissioni che si occupano di attualità politica (sì, ve ne sono anche in Russia, sebbene spesso screditata in “Occidente” per il non corrispondente tasso di democraticità – che poi, sarebbe necessario interrogarsi sui termini “democrazia” e “dittatura”, auspicabilmente con un manuale di scienza politica alla mano), specie su Первый Канал, come Время Покажет e Большая Игра, vi siano spesso presenti in qualità di ospiti opinionisti politici o ex-politici proprio ucraini. Come accaduto, ad esempio la scorsa sera, con Николай Азаров, primo ministro dal 2010 al 2014, o nelle settimane precedenti con alcuni parlamentari del parlamento ucraino, la Верковна Рада Украины, appartenenti alla Оппозиционная Платформа, il successore dell’ex Partito delle Regioni di Виктор Янукович e ostile alle politiche nazionaliste e centraliste confermate anche sotto la presidenza Зеленский e in violazione di Minsk I-II (ci si dovrebbe ricordare da noi, ogni tanto, come la classe politica ucraina non nasce e finisce con un ex comico ucraino russofono e immigrato in Russia prestato tragicamente alla politica…), o addirittura l’ex Пресс-Секретарь del presidente Виктор Янукович dal 2011 al 2014, il tutto a simboleggiare che c’è una fetta consistente di ucraini e classe politica ucraina sottostimata eppur presente che vuole dire la propria.
Ma forse è una questione troppo sovietica e putiniana per i palati fini europei, auto-rinchiusisi nella loro cortina di ferro mentale del “West & the Rest” e sul mito pop dell’Euromaidan… Su cui aleggiano ancora quei quasi 5 milioni di voti dell’elettorato ucraino federale ed euroscettico misteriosamente scomparsi – o forse, silenziati – tra le elezioni parlamentari del 2012 e quelle del 2014).
Balza all’occhio, dunque, la qualità e la varietà degli ospiti nelle trasmissioni politiche televisive: accademici di lungo corso esperti di relazioni internazionali, ufficiali militari in congedo, analisti dei maggiori think tank nazionali, ospiti esperti dall’estero. Certo, è cosa assurda pensare di scalfire il senso di grandeur del popolo russo, il Великодержавность, ossia quel patriottismo profondo e orgoglioso che trascende le opinioni personali e collettive di un popolo plurinazionale come quello della Federazione Russa, ma risulta evidente che giacciono almeno due galassie di differenza tra trasmissioni del genere e Otto e Mezzo o Carta Bianca e così via. O meglio, della sindrome dei talk show.
Ed è perciò qui che si traccia il solco, la “nuova cortina”: l’ideologizzazione del dibattito e la conseguente polarizzazione; le comprensioni, o meglio le volute incomprensioni; la strumentalizzazione dell’opinione pubblica, la più efficace delle armi come già ammonito da Von Metternich due secoli addietro; la censura e l’oscuramento dell’informazione, la cancel culture (stendiamo un velo pietoso sul dibattito riguardo i classici della letteratura russa); il valore politico della fobia.
Proprio in questo contesto angusto deve operare l’internazionalista che, per sua vocazione, è chiamato a vedere, e a ricordare di vedere, le molteplici sfaccettature del reale con sguardo neutro e capace di contestualizzare, e dunque a scomporle e infine comprenderle secondo un approccio clinico, asettico e oggettivo. Insomma, a portare con sé e a indossare sempre lenti diverse.