Le scimmie non ridono. La risata è una caratteristica del solo essere umano. Più o meno così, il Guglielmo da Baskerville di Umberto Eco, che difende la comicità. O meglio, il dono di ridere e far ridere, contro gli argomenti seriosi del Venerabile Jorge da Burgos….
Lasciando perdere gli intenti di Eco – che polemizzava tra le righe con il grande Borgès – la frase porta a riflettere sul ridere. Che è cosa, o meglio arte non facile. Perché, certo, è cosa assai difficile suscitare il riso. E non per nulla un grande attore si rivela nelle parti comiche, più ancora che in quelle drammatiche. Amleto emoziona anche se interpretato da un mezzo scalzacani. Basta la poesia di Shakespeare. Ma Falstaff necessita di un grande interprete. Ricordo Tino Buazzell nelle Allegre Comari di Windsor. Immenso. Sapeva rendere vive e attuali battute e lazzi che avevano il sapore dell’età elisabettiana.
Senza dimenticare il Principe de Curtis. Capace di fare, di canovacci scontati e vieti, delle sarabande rutilanti di risate surreali. Facendo letteralmente lacrimare gli occhi degli spettatori. Lacrime di assoluta, e assurda, allegria …
Tuttavia una cosa è l’arte di far ridere. Altra, totalmente altra, la capacità di ridere. Che è dono raro. Perché normalmente noi si ridacchia, si ghigna, ci si sganascia… ma non si ride davvero.
Gli antichi Dei ridevano. Ermes, fanciullo, sfidò l’ira di Apollo. Poi lo placò con la musica. E suscitando il suo riso con alcuni scherzi.
Demetra era disperata. Kore era svanita. Rapita da Ade. Ma la vecchia Bauci la fece ridere con una danza buffamente oscena…. E furono i Misteri di Eleusi.
Perché ridere, ridere davvero è prerogativa degli Dei. Espressione di forza. Di un’assoluta libertà. E assenza di ogni paura.
Eracle è l’eroe che ride. Come ride Thor nel mito scandinavo. E la grande sala di tronchi di frassino, il Wahalla, risuona delle risate degli eroi raccolti a banchetto. Che attendono così il compimento del loro destino. E la battaglia finale. Quando la Bestia irromperà… Battaglia che affronteranno ridendo…
Ride, di gusto, anche Siddhartha Gautama. Divenuto il Buddha. Grandi risate insieme ad Ananda, il discepolo più amato. E a Maha Kasyapa. Dal quale si voglia discendano le scuole Chan cinesi. E poi quelle Zen del Giappone. Dove i maestri, spesso, ridevano. A crepapelle.
Perché il Buddha, l’illuminato che ride, è al di là del divenire apparente delle cose, del gioco illusorio di piacere e dolore che condiziona l’esistenza apparente. E può davvero ridere proprio perché ne coglie l’impermanenza. La sostanza solo apparente.
Il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Recita un vecchio motto. Che però non viene dalla sapienza antica, anche se risuona in latino. Piuttosto adombra una certa qual seriosità già bigotta e borghese, e che è cosa ben diversa dalla serietà. Perché ridere è cosa davvero seria. Non è una deformazione del volto, una mostruosità come ne “L’uomo che ride” di Hugo. E neppure indice di una mente effimera, incapace di pensare se non la superficie delle cose e delle emozioni.
Rivela, piuttosto, la capacità di distacco, il lasciare la presa, l’ebrezza di sentirsi, e percepirsi, nella solitudine. Nel vuoto. E superare quella paura, quello sciame di paure che potrebbe normalmente, annichilirti.
Zarathustra ride nel deserto. Nietzsche lo udì ridere. Prima di precipitare nell’abisso di quella che viene chiamata follia.