Vent’anni di fallimenti della politica, se si pensa che uno stipendio medio, in Italia, è più basso di circa 7.500 euro all’anno rispetto alla Germania, ad esempio.
Il ministro dell’Innovazione, Vittorio Colao, rivolto agli imprenditori, offre una chiave di lettura diversa: «Assumete di più e pagate di più, soprattutto i giovani». In un grafico su dati dell’Ocse, che prende in esame l’evoluzione degli stipendi medi nell’arco di trent’anni, dal 1990 al 2020, l’Italia è ultima, con un -2,9%, unico Paese dove le retribuzioni sono scese. Non tiriamo sempre in ballo il reddito di cittadinanza ma focalizziamoci sugli stipendi. «Le competenze più fresche e aggiornate – ha puntualizzato Vittorio Colao – vanno retribuite per quanto valgono veramente, senza risparmiare sui salari. Gli stipendi reali, soprattutto da noi in Italia, sono ancora troppo bassi».
Nello stesso periodo preso in esame, in molti Paesi europei, le retribuzioni sono aumentate: del 33% in Germania, del 31% in Spagna e del 15%in Olanda. Un’Italia in controtendenza e divisa, con i nemici del Rdc che sostengono che sia colpa di questo assegno se tante aziende non trovano lavoratori. Per i difensori, al contrario, sono le aziende che dovrebbero pagare di più.
I politici fanno propaganda, riproponendo per l’ennesima volta il taglio del cosiddetto cuneo, ovvero del prelievo fiscale e contributivo che grava sulle retribuzioni che, sempre secondo i dati dell’Ocse è pari al 46,5% nel 2021, collocando l’Italia al quinto posto su 38 Paesi avanzati. Ma sembrerebbe impossibile tagliare il cuneo perché costa tanto. La proposta di Confindustria, per esemplificare, che consentirebbe ai lavoratori di avere circa cento euro in più al mese in busta paga, peserebbe sul bilancio pubblico per 16 miliardi l’anno, secondo i calcoli degli stessi industriali.
Bonomi, il presidente di Confindustria, non vuole sentire neanche parlare di rinnovo dei contratti sulla base di un indice dell’inflazione diverso dall’Ipca, che non tiene conto dei costi energetici ora ai massimi storici. Il vero problema non sono solo i salari bassi ma anche il lavoro povero remunerato per poche ore. Ma davvero lo Stato dovrebbe definire un salario minimo e incentivare il rientro delle imprese che hanno delocalizzato le produzioni? Ciò che è certo è che la situazione dei bassi salari si trascina da almeno due decenni e che dovrebbe essere affrontata con strumenti nuovi, certamente non quelli attuali. La stretta monetaria e il conseguente rallentamento dell’economia potrebbero peggiorare le cose per gli stipendi italiani, già mediamente bassi.
Intanto Letta, segretario del PD, dichiara: “Abbiamo intenzione di portare avanti la nostra proposta per il salario minimo che ovviamente non imporremo a nessuno ma che porteremo nel dibattito parlamentare nel confronto tra partiti. Siamo pronti a discutere per trovare un accordo entro la fine della legislatura”.
Ma in tutto questo che ruolo dovranno avere i Ccnl? Perché il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei contratti collettivi nazionali è ben più esteso del mero trattamento economico minimo. Tenendo conto che le riforme degli ammortizzatori e delle politiche attive e della formazione, assolute urgenze del momento, sono ancora in fase “di bozza”, siamo ancora in alto mare.