La bestia populista ferita da alcune tornate elettorali viene ciclicamente data per spacciata ma, come sottolinea spesso il politologo Marco Tarchi, gode, invece, di ottima salute, perfino quando incappa in qualche insuccesso.
Dalla fine degli anni Novanta e per i primi anni Duemila le vittorie ad effetto domino nel subcontinente latinoamericano dei leaders della sinistra del nuovo socialismo hanno fatto parlare di una decade dorada in cui le riforme di presidenti come il venezuelano Hugo Chávez, l’ecuadoriano Rafael Correa o il boliviano Evo Morales hanno permesso l’elevazione delle classi sociali meno abbienti tramite una fitta rete di programmi di welfare.
La destra, in quella parte del globo appiattita sul liberalismo filoyankee, ha provato a più riprese a giocarsi la carta dell’autoritarismo effettuando una reductio ad hitlerum respinta da cittadini che finalmente hanno preso possesso dei propri diritti e smesso di essere (con un secolo o più di ritardo) dei sudditi.

Qualche problema è sorto con il passaggio del testimone tra i leader artefici del cambiamento e i propri delfini (non sempre dotati dello stesso carisma) ma soprattutto con il ribaltamento del quadro economico internazionale e il crollo dei prezzi delle materie prime (tra i quali gli idrocarburi) di cui è ricca l’America centrale e meridionale.
Dopo le prime battute d’arresto il socialismo del XXI secolo sembra, però, aver preso le misure e fatto i conti con il cambiamento dell’assetto che lo circonda e si è ripreso maggioranze parlamentari (Venezuela) ed esecutivi (Bolivia e Argentina) negli Stati dove era sorto per primo completando il quadro con vittorie mai lontanamente immaginate nei feudi legati alla potenza a stelle e strisce nordamericana (Cile, Perù e Messico).
Eppure pare proprio che questi numeri non bastino ad accreditare una tesi che sembra evidente. Sulla stampa italiana atlantista l’obiettivo dichiarato è quello di minimizzare i successi (elettorali e non solo) di una sinistra che inorridisce i liberal-progressisti perché degna di un nome che nel tanto decantato Occidente non ha più senso, essendosi piegata sotto la dicitura socialdemocratica ai potentati extranazionali che chiedono di abbattere tutele lavorative e sistemi sociali.
Insomma nel pezzo di Maurizio Stefanini sul quotidiano diretto da Claudio Cerasa intitolato “In Perù vince Castillo, ma la “marea rosa” non è come sembra” c’è un che di vero ma non quello che si vorrebbe far apparire.
La sinistra è quella di una volta, che vuol scrivere Costituzioni nuove e inclusive, nazionalizzare le principali imprese e i maggiori beni prodotti dai Paesi, strizzando l’occhio a temi quali l’identità e le tradizioni.
1 commento
CHI NON SA GESTIRE LE AZIENDE, NON E’ IN GRADO DI GOVERNARE I POPOLI E CREARE LA RICCHEZZA.
LA POVERTA’ CRESE TRA GLI IGNORANTI.
SOLO LAVORANDO CON IMPEGNO SI POTRA’ PROGREDIRE E CREARE NAZIONI DOVE IL BENESSERE SI RIVOLGE A TUTTA LA POPOLAZIONE