Questa mattina mi sono svegliato un po’ più tardi del solito. In un’alba insolitamente luminosa. Il cielo terso ed azzurro, e le montagne che splendevano per i primi raggi, riflessi dalla neve sulle cime.
Azzurro e sereno sorprendente, dopo giorni e giorni di piogge battenti, alternati ad altri di improvvisi piovaschi. Ancora ieri sera, era uno stillare di gocce gelide. Tanto fredde da fare temere che, nella notte, potesse volgersi già in neve.
E, invece, ora splende il sole. E… sembra quasi tornata l’estate.
Ingannevole, naturalmente. Perché appena metti il muso fuori di casa, senti il vento ghiacciato, che profuma di neve e mughi. Un vento che viene dai monti circostanti, e che ti dice che, ormai, quassù, si è già all’inverno.
Così tu cerchi gli albicocchi in fiore, e senti del prunalbo l’odirino amaro…il Pascoli sapeva cogliere come pochi le sensazioni/emozioni che vengono dalla natura e dai suoi cicli. Un modo di poetare, e di essere, insolito nella nostra modernità. Sempre portata alla contemplazione del proprio ombelico. Autoreferenziale. Anzi… autistica.
Mentre il Pascoli ha una capacità di osservare, anzi di “vedere” le cose, e di fermare le emozioni che trasmettono, prima che si perdano nel labirinto della psiche soggettiva. Mi ricorda, a tratti, Bashō. Il più grande poeta zen.
L’estate fredda dei morti. La chiama così, nell’ultimo verso. Perché è San Martino. E quest’anno si presenta proprio come la tradizione vuole. Un’illusione d’Estate.
È un giorno particolare. Soprattutto lo era un tempo. Quando si vivevano, o almeno si ricordavano certe tradizioni.
Fare San Martino. Significava, nelle campagne, che scadevano i contratti di mezzadria. E, spesso, si doveva abbandonare podere, casa… tutto. E andare altrove. Ne “Le veglie di Neri” il Fucini ne ha saputo dare una descrizione vivace, e malinconica allo stesso tempo.
Ma, soprattutto, San Martino chiudeva i dodici giorni dei Morti. L’antico Capodanno celtico, come qualcuno lo chiama. Samahin. Dodici giorni, o meglio dodici notti magiche e incantate. Dodici, come le notti da Natale all’Epifania. In cui le “porte” che separano i mondi, venivano spalancate. Ed esseri magici, fantasmi, Dei… tornavano ad aggirarsi tra i viventi.
Quando ero ragazzo, a Venezia, usava il “battere San Martino”. Gruppi di bambini, armati di pentole, pignatte e mestoli andavano per calli e vie, facendo un frastuono incredibile. Apotropaico, ché, pur inconsapevolmente, era un rituale per fugare gli spiriti, i fantasmi che per dodici notti l’avevano fatta da padroni nel nostro mondo.
E le caramelle, i biscotti che venivano elargiti ai “musicanti” per allontanarli da una porta o un portone, erano offerta votiva.
Poi, a casa, ti aspettava il “San Martino” in pasta frolla, con decori di zucchero, confetti, cioccolatini… Una delizia. Un gusto che mi sembra ancora di sentire in bocca, a distanza di tanti anni. Unico. Come solo i ricordi, anzi le sensazioni dell’infanzia possono essere nella memoria…
È sabato e le strade, di primo mattino, sono per lo più deserte.
Però stanno montando le casette del Mercatino di Natale. E preparando gli addobbi, le luminarie…
Perché qui il Mercatino apre stasera. Al tramonto dell’11 novembre.
Forse è casuale… però, se ci pensi, ha un senso.
Si chiudono le dodici Notti dei Morti. E si apre l’Avvento.
L’attesa di altre Dodici Notti magiche. Una magia… diversa. Però pur sempre il Tempo Cosmico che fa irruzione nello scorrere ordinario dei nostri giorni…