Abbiamo tutti almeno un luogo dell’anima. Un luogo a cui sempre, periodicamente, torniamo, con la memoria se non altro. Nei momenti difficili soprattutto.
Un luogo dove si è stati felici. Legato all’infanzia, alla giovinezza, soprattutto…
Per Foscolo era Zacinto. O Zante, l’isola natia. Ricordata attraverso il filtro del mito. Vi rivedeva l’Itaca omerica. Perché, in fondo, tutti, nel correre irrefrenabile della vita, desideriamo tornare a Itaca. Alla nostra, personale, Itaca.

Per me, Itaca non è un’isola. È una valle. Incastonata tra i monti. E non è Shangri-La, la valle fiabesca di “Orizzonte perduto”, il capolavoro che Frank Capra trasse, nel 1938, da un romanzo di James Hilton. Che, a sua volta, aveva lavorato parecchio di fantasia sulla tradizione tibetana di Shamballa. Facendo, di questa sua valle, il luogo di una sorta di eterna giovinezza…
La mia valle, invece, è reale. La chiamano Val Boite, dal torrente che vi scorre con acque veloci e impetuose. Il Boite, che nasce più a Nord, in Ampezzo, a Campo Croce. E che scorre tra quei boschi e quelle rocce scintillanti delle dolomiti per oltre 40 chilometri… Sino a gettarsi nel Piave…
Tranquilli, la lezione di geografia finisce qui. E serviva solo a inquadrare il luogo, a far capire che esiste. Che è reale. Non semplicemente un sogno. Anche se, lo ammetto, nei miei sogni spesso ritorna. O, forse, sono io a tornarvi. Scherzi della memoria…. viaggi, astrali, nel tempo. Perché, nel sognare, il tempo è altro. Si giunge, dicono, sul piano dove tutto è. E non diviene, per fare il verso a Parmenide. Dove siamo contemporanei ad ogni attimo della vita. E passato e futuro sono parole vuote di senso…
Comunque, il mio luogo è la parte alta della Val Boite. Quella del paese che ha nome San Vito di Cadore. E del Lago di Mosigo. Perché ogni punto, nella lunga valle, offre una prospettiva diversa. Le montagne, una delle cerchie più maestose delle Dolomiti, si mostrano da mille angolature. Ed ognuna ha una sua, particolare, bellezza.

L’Antelao appare, lì, in tutta la sua maestà. Un gigante splendente di ghiaccio verso la vetta. E il Sorapis si erge dai contrafforti della Croda Marcora, ed ha un volto che all’alba si colora di rosa. E, prima dei tramonti estivi, fiammeggia come oro fuso. E poi il Pelmo. Che sempre si guardava per primo al mattino. Perché “se c’ha il cappello, o che piove o che fa bello…” nonsense popolare. Di cui, da sempre, mi sfugge il significato.
E poi le Rocchette, la Croda da Lago alle cui pendici vivono tribù di marmotte. Invisibili al viandante, che però ne sente il fischio. Di allarme e di richiamo. E l’Alpe di Senes. Una sorta di verde collenaccia coperta di bosco. Di notte è possibile, dal paese a fondo valle, vedere la tenue luce del rifugio. Luogo di delizie, da bambino e ragazzo. Le frittelle di mele calde. Lo strudel fatto in casa. Le salsicce con polenta alla brace…
Nel bosco alle pendici di Senes era possibile, restando fermi e in silenzio per lungo tempo, vedere apparire un cervo. La testa con l’impalcatura maestosa. Il muso che fiutava, dubbioso, il vento. Razza che sembrava sparita per lunga pezza, a causa di una caccia indiscriminata. Ma i cervi sono specie prolifica e resistente. Sono ricomparsi dopo molto tempo. Dal profondo del bosco, dove l’uomo di rado si inoltra. Da quello che, in antico, per le genti reto – celtiche che vivevano nella vallata, era la dimora di Cernummus. Il Dio dalla testa di cervo.

Molte case avevano appesi trofei di corna, ricordi dei nonni. Che in quelle terre essere uomo significava, un tempo, essere cacciatore. E vi erano questi trofei anche nella sala grande dell’albergo ove villeggiavamo. Corna di cervo, di camoscio, di cerbiatto…
Albergo… Quasi un rifugio in anni lontani. Camere spartane. Per letti brande con materassi di crine. Coperte che sembravano, e forse erano, quelle militari. E il lavandino in camera. Il bagno era in comune. Sul ballatoio. Per immergersi nella vasca bisognava prenotare il turno. Altrimenti ci si spugnava in camera. Una televisione. Una sola nel salone. Ed era già un lusso. E dominavano i vecchi, che volevano vedere Mike Buongiorno. Noi ragazzi preferiamo “I compagni di Baal”, serie francese che ti coinvolgeva con il mistero. Ma c’era poco da fare. E allora scendevano all’unico bar del paese, che aveva un televisore. E lì si guardava, e si mangiava il gelato ancora mantecato a mano dal padrone. Cinque, sei gusti… vaniglia, cioccolato, pistacchio, fragola, limone… e sopra la panna. Che sapeva di latte fresco.
Dietro l’ albergo, cominciava già il bosco. E scorreva un torrentello confluente nel Boite. Vi trascorrevo giornate. Leggendo all’ombra degli abeti. Fu lì che lessi il “Bel Amì” di Maupassant, Lèrmontov… E scoprii Goethe.
E lessi, anche “Gli Dei dei Germani” di Dumézil. E mentre vi ero assorto, un volo di corvi sciamò sopra di me. Ed uno si posò su una roccia di fronte… ci fissammo a lungo negli occhi. In silenzio, rotto solo dallo scorrere dell’acqua sulle pietre…
Basta. Flussi di ricordi. Immagini senza un senso compiuto. Un senso razionale almeno. Una sera di metà Aprile. Con la pioggia che cade lenta sull’asfalto della strada di fronte…