Chissà perché tendiamo a sottovalutare il senso del gusto….
E, qui, subito qualcuno alzerà il ditino per contraddirmi… come sottovalutare? Ma se le televisioni non fanno che proporre rubriche di cucina? Se gli chef, grandi o presunti grandi, sono le star mediatiche alla moda? Se i Social rigurgitano (termine quanto mai appropriato) di gente che pubblica tutto ciò che mangia, dai maccheroni al sugo alla brioches confezionata, dalla, raffinatissima, sella di vitello alla Orloff alla, popolare, trippa alla parmigiana?
E, invece, proprio in questo sta la sottovalutazione di cui parlo. Nel considerare il gusto, solo ed esclusivamente, come appagamento di un piacere… basso. Di un edonismo di risulta. In fondo abbastanza… sordido. Tant’è che, per naturale contrappasso, coloro che vogliono atteggiarsi ad esseri superiori, spirituali, ostentano un, altrettanto stolto, disprezzo per il cibo.
E così, in entrambi i casi, si perde il vero senso del gusto. Il suo essere, in primo luogo, uno strumento di conoscenza. Conoscenza di sé, e conoscenza del mondo.
Lo si comincia a comprendere se si nota che il gusto si lega al ricordo. Ovvero a qualcosa di totalmente immateriale. E che non è semplicemente una memoria razionale, una qualche scheda nell’archivio del cervello. È molto altro. Molto di più.
Pensieri, certo, pero anche emozioni. Sentimenti. E… sensazioni.
Le sensazioni del gusto soprattutto.
Che, spesso, affacciandosi nel ricordo, ovvero riaffiorando dalle profondità del “cuore”, ci permettono di viaggiare. Nello spazio e, ancora di più, nel tempo.
Il sapore delle caldarroste. Ed anche il loro profumo, ché odorato e gusto sono irrimediabilmente intrecciati. Evoca ricordi di novembre lontani, il giorno dei morti, la visita al cimitero, le tombe dei bisnonni di cui non restava che una vaga memoria familiare.
E poi le “fave”, dolcetti di pasta di mandorle, e il San Martino in pasta frolla. E le patate americane, dolci e pastose, perfette con il vin novo, che da noi si beveva sfuso, ben prima che arrivasse la moda, francesizzante, del Novello.
Sapori che ancora oggi mi riportano quelle sensazioni ed emozioni. Provate, bambino, lungo i vialetti di ghiaia del Camposanto, il profumo dei fiori appassiti, le lapidi che davano un senso di gelo.
Vi era un senso in quegli usi, o, forse, sarebbe più giusto chiamarli “riti”. Il legame, sottile e profondo, con la propria storia familiare. Gli antenati, il sangue che si trasmetteva attraverso le generazioni. Le storie che sentivi raccontare. Il bisnonno ferito sull’Isonzo, quell’altro emigrato in America, e tornato, periodicamente, solo per stampare figli…
Vi è un caldarrostaio, oggi, qui all’angolo. Fa parte dell’animazione per i Mercatini di Natale che hanno appena aperto. Un cartoccio, caldo, bollente. E quel sapore in bocca, che quasi mi brucia.
Torno indietro nel tempo. Ricordo. Ricordi lontani, alcuni più lontani degli anni della mia stessa vita. Si perdono nei meandri del tempo. In altri, che furono prima di me. Anche se non ho memoria di loro. Solo un ricordo evocato da un sapore… antico.