“E sovra i monti, lontano sugli orizzonti/è lunga striscia color zafferano:/irrompe la torma moresca dei venti…”
È inevitabile. Ogni volta che soffia lo scirocco, e mi affaccio al balcone, guardando, nell’orizzonte il profilo dei Tiburtini, questi versi affiorano nella mia memoria.
Versi di Lucio Piccolo. O meglio di Lucio Carlo Francesco Piccolo, barone di Calanovella. Perché era un vero nobile siciliano di antica schiatta. Un Gattopardo. Uno degli ultimi esemplari, con suo cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Vero aristocratico, rifuggiva con disprezzo ogni forma di mondanità. Soprattutto quella culturale, i salotti letterari, la ricerca di appoggi e prebende, la prostituzione intellettuale per una critica favorevole… Era di altra pasta. Altra razza. Appartato, dedito a studi musicologici ed esoterici, trascorse quasi tutta la vita nel suo palazzo a capo d’Orlando. Contemplando il cielo e il mare. E distillando versi come un alchimista.
Pochi versi. Tre raccolte scarne. “Canti barocchi”, “Gioco a nascondere”, “Plumelia”. Più alcuni inediti usciti dopo la sua morte.
Eppure, è forse il più cristallino, perfetto, profondo lirico italiano del ‘900. Nulla di strano. Anche di Guido Cavalcanti ci sono restati solo una manciata di versi. Ma di perfezione pressoché assoluta. Tanto che Pound, orecchio fine, lo considerava superiore a Petrarca…
Ma questo non vuole essere un saggio sul poeta siciliano. Non mi voglio addentrare a parlare della sua conoscenza delle opere di Yeats e Rilke. Allora ignoti in Italia. Né del fatto che fu Montale a scoprirlo. Di per sé eccezionale, visto il carattere di questi, ben poco disposto a concedere aiuto ad altri poeti…l’opposto, anche in questo, di Ungaretti. Ma per Piccolo fece una eccezione. Come, in altra forma, per Svevo. E questo significa qualcosa…
Ma, appunto, il mio non è un articolo letterario. Solo la notazione che quei versi – letti tantissimi anni fa, in un volumetto edito, e non è un caso, da Vanni Schewiller – sempre mi tornano nell’orecchio quando soffia lo Scirocco…
Forse perché in quel distillato di liriche, Piccolo ha saputo dare voce, come pochi altri, al rapporto sottile tra paesaggio, ovvero fenomeni naturali, e stati dell’animo, o della coscienza umana…
Lo Scirocco è vento misterioso. Anche se, a dire il vero, tutti i venti sono carichi di mistero. Il dominio di Eolo cela il segreto di ciò che è inaffidabile, che sfiora, ma non può essere sfiorato. Che afferra e trascina. Ma non può essere afferrato…. Reca una strana sensazione di libertà. Il segno di orizzonti vastissimi. Di spazi interminati…
Ma lo Scirocco è anche molto altro. Intanto è un vento caldo. Che ti avvolge come in una sauna. Ti rende madido di sudore. Ti sfibra. E, al contempo, accende sensi e desideri. È vento di un erotismo intenso e indolente. Lento. Come una nenia araba..
Già, la torma moresca dei venti… Nel suo respiro sembra di avvertire la chiamata alla preghiera del muezzin, cavalli che galoppano nelle rosse sabbie del deserto. L’oasi che promette refrigerio, e il miraggio che ti fa perdere la via. E, anche, le morbide e sensuali movenze della danza del ventre…
Si, lo so. Un mondo arabo, un Maghreb da cartolina. Da film anni ’30. Convenzionale. Forse, più che altro slegato dall’ odierna realtà e dai suoi problemi. Inattuale, ecco. Forse questa è la parola giusta…
Ma lo Scirocco è inattuale. Perché sempre uguale a se stesso. Perché i suoi profumi sono sempre gli stessi. Datteri e cinnamomo. Tè, e zafferano…
E i suoi colori. Il cielo che diventa ocra. Come se il vento sollevasse il deserto sino alle nubi. Che sembrano greve di sabbie. Non di pioggia. E poi il colore del croco. Quella sottile linea di zafferano che pervade, e delimita, ogni orizzonte..
È…inquietante. E non a caso si dice che sia vento che urta i nervi. Che esaspera i più fragili. Accentua le nevrosi. Porta a forme parossistiche le turbe mentali…
Respiro profondamente. Provo uno strano senso di soffocamento. Nella mente, ancora assonnata, mi si affollano immagini e suoni. Alla rinfusa. I versi delle Rubayyatt di Omar Khayyam. La carica dei Cavalieri berberi ne “Il vento e il leone” di John Milius. Alcuni passaggi de “La Messa Arcaica” di Battiato.
Nel vento, in un refolo improvvisamente più fresco, avverto un profumo di mare… Mi sembra quasi di sentire la risacca delle onde del Mediterraneo.
Ma probabilmente è solo la stanchezza… l’insonnia che gioca scherzi alla mia immaginazione..