Si sono spenti ormai da tempo i riflettori sull’ultimo Festival di Sanremo. Con i soliti strascichi polemici sia sul brano vincitore che sulla composizione ed imparzialità delle giurie. “Querelle” praticamente costante da quando è nata tale controversa manifestazione.
Quest’anno come nei precedenti – tranne forse il periodo più buio ed anonimo – è palesemente aleggiato lo spirito quantomeno musicale di Luigi Tenco. Forse per un “senso di colpa” mai sopito nel confronti dello sfortunato cantante. Per certo non a torto. La qualità dei suoi brani era senz’altro notevole, a dispetto del fatto che gran parte del suo successo sia purtroppo venuta solo in fase postuma.
Sul come, sia allora sia ai giorni nostri, un brano venga sottoposto al giudizio di non meglio identificate giurie è cosa arcinota. Un tempo esistevano – in varie località italiane e con la presenza di un notaio – gruppi di persone che dovevano esprimere un giudizio in proposito. Poi comunicato telefonicamente. Manipolabile? Ma figuriamoci. Oggi, a parte giurie più o meno imparziali o “di qualità”, si è passati al redditizio televoto. Influenzabile/i o manipolabili entrambi? Ma non scherziamo.
In ogni caso non s’intende sviare da quello che era l’argomento principale da voler essere preso in considerazione. Ovvero la morte del sopracitato Tenco nell’ormai remotissimo 1967. A riguardo della quale si sono detti, scritti, fatti ascoltare nonché mostrati fiumi di cazzate. Con le ipotesi più assurde e fantasiose. Per una morte che poi si è realmente rivelata come suicidaria. Tantopiù dimostrato dall’assurda riesumazione del 2005. Che ha permesso qualsiasi tipo di rilevamento essendosi il corpo conservato – dopo 49 anni – pressoché intatto.
Luigi Tenco prima vittima dello “show business” all’italiana? Secondo chi scrive no. La soluzione potrebbe essere ben e drammaticamente più semplice. Al netto di tutte le ipotesi di omicidio camuffato se non addirittura commesso altrove, complotti, presenze altrui giammai provate, questioni finanziarie e/o dovute al gioco d’azzardo e di tutte le porcherie scritte in cinquantadue anni pur di vendere qualche copia di un libro o di un periodico, creare “audience” per programmi radiofonico/televisivi e compagnia briscola.
Vediamo perché. Indubbiamente il cantautore, fino a quel momento, non aveva ancora incontrato i favori del grande pubblico. Nonostante qualche brano di discreta notorietà, in Italia non aveva sicuramente raggiunto la fama di un Paoli. Benchè quest’ultimo avesse composto praticamente la totalità dei suoi grandi successi nella banalità dei “giri armonici”. Insomma, l’arcinoto do – la minore- fa – sol settima ognuno lo può suonare e ritmare nella tonalità che gli pare, ma la “zuppa” rimane quella. (1)