“Mi spiace professore. Ho già spento il pagobanco. Se non ha contanti, segno…”
Sentendo dire questo, ho un trasalimento improvviso. Un moto di sorpresa… Perché, vedete, non è proprio cosa di tutti i giorni compiere un viaggio nel….Tempo.
Forse, però, è meglio spiegare. Per non sentirmi dire che il mio pusher mi dà roba cattiva…o che l’Alzheimer gioca brutti scherzi…
Dunque, sono al negozietto di alimentari sotto casa. Uno di quegli ultimi, piccoli, negozi che tengono un po’ di tutto. Banco di prosciutti e formaggi, qualche confezione di macinato e di hamburger. Uova, pane, biscotti e dolci vari. Detersivi, caffè, pasta, scatolame… Insomma, ci puoi fare una spesa completa. O, più facilmente, trovare, all’ultimo minuto, quello che ti sei dimenticato e che ti serve. Esempio, sono quasi le otto di sera, e mi sono accorto che il latte è finito. E così anche le uova…. E che gli do domani mattina a colazione a mio figlio? spaghetti al pomodoro? magari ne sarebbe anche contento, ma…Non è cosa…
Così scendo di corsa al negozietto. Ed è ancora aperto. O meglio, saracinesche abbassate, e mezzo buio. Ma intravedo una tenue luce. I due fratelli che lo gestiscono sono ancora lì. E quando entro non fanno una piega. Anzi. Una vendita è un incasso. Non è questione di orario…
Però, come dicevo, il pagobancomat lo hanno già spento. E sono senza contanti. Quindi…
Quindi comincia il viaggio imprevisto, nel Tempo. Non in un passato remoto, che so a incontrare Leonida prima delle Thermopili. Cosa, per inciso, che mi sarebbe sempre piaciuta. O il generale Beauregard prima della battaglia di Shiloh. O il barone von Ungern, come il Corto Maltese di Pratt…
Un viaggio in un tempo abbastanza vicino, tutto sommato. E che, pure, mi sembra ormai lontanissimo.. Remoto.
Il tempo della mia infanzia. Quando mia madre, talvolta, mi mandava a fare la spesa. Senza soldi in tasca, ché dare quattrini ai ragazzini allora non era cosa… Non per tirchieria. Per educazione. I soldi in tasca te li devi guadagnare. Punto.
Però la spesa la facevo. Dall’alimentarista. Dal lattaio. Al panificio. Dal fruttivendolo. Prendevo ciò che mi era stato scritto in una nota. E loro…segnavano. Poi passavano i miei a regolare. Come tutti allora. Niente carte di credito. Niente pagobanco. Niente registratore di cassa. E niente scontrino…
Ricordo che molti passavano a pagare il conto a fine mese. Quanto tiravano lo stipendio…
Era un’Italia così. Una diversa Italia. Strapaesana. Più semplice. Si faceva a fidarsi. Tu ti fidavi del negoziante e lui di te. Il credito si basava sulla conoscenza reciproca. Rappresentava una sorta di legame comunitario.
Perché allora i quartieri erano delle (piccole) comunità. Pur già immerse nel mare magnum della società. E mantenevano alcuni usi, e aspetti, della, antica, vita comunitaria. Quella che è stata erosa, e praticamente annientata, dall’espandersi della Società. Che è, per sua natura, anomica. Fondata solo su relazioni di interesse. Come già intuì, oltre un secolo fa, Ferdinand Tönnies, uno dei grandi della scuola sociologica tedesca.
Nella società tutto si fonda su interessi ed utilità. E gli uomini divengono solitari. Individui privi di legami autentici. Anaffettivi. La megalopoli moderna è il vero deserto. I nomadi Tuareg non sono soli. Non soffrono la solitudine. L’uomo urbano è invece desolatamente, disperatamente, solo.
La Comunità si fondava su qualcosa di ben diverso dall’interesse. Sul Dono. Questo il significato del latino “cum munus”. Il legame di fiducia. Il senso di appartenenza alla stessa, piccola, realtà. Il senso di reciprocità. Una virtù fondamentale per la vita comunitaria. Come già chiaramente detto da Confucio nei suoi Dialoghi…
Tutto questo non aveva bisogno di grandi teorie, analisi sociologiche, astratte ideologie. Era un tessuto di usi, piccoli gesti, modi di fare. Un modo di essere. Per lo più perduto.
Guardo il negoziante davanti a me.
“Sì grazie, Sandro. Segni per favore…”
E me ne vado tutto contento. Tornando nel nostro tempo…purtroppo.