“Dove vai in vacanza?”, chiede l’amico all’amico. Perché in questo periodo, nonostante la crisi economica, il lavoro che manca a chi lavora, e che manca soprattutto a chi “non” lavora, e le restrizioni dovute ai decreti del governo, bisogna pur andare da qualche parte, cambiare aria, rilassarsi.
Viviamo in un mondo in cui, ancor prima della pandemia, il turismo è diventato obbligatorio, o, perlomeno, una necessità irrinunciabile. Tuttavia “andare in vacanza da qualche parte” è diventata un’attività che ci è completamente sfuggita di mano e che non ha più alcuna connessione con il viaggiare.
Un tempo il viaggio aveva un sapore che andava al di là della semplice esperienza. Non soltanto perché in ogni religione aveva un significato sacro: il viaggio era connesso al pellegrinaggio ed era legato alla ricerca o alla riscoperta di se stessi. Ma ci si spostava anche per aprire nuove vie commerciali o per aprire nuovi mercati, tutte attività tese alla crescita economica di chi si metteva in viaggio e di chi, pur rimanendo in patria, avrebbe usufruito di quella nuova ricchezza.
Poi è venuto il momento in cui si viaggiava per esplorare, per colonizzare sì, ma anche per andare dove nessuno era mai stato. Furono soprattutto gli Inglesi a coniugare la loro rapacità con il loro istinto ludico. Il viaggio, così, diventa gioco ma soprattutto competizione. Si vuole arrivare primi laddove nessuno è mai stato, conquistare vette inviolate, o esplorare terre sconosciute. Anche quando ciò comporta enormi sacrifici e immani fatiche, anche a rischio della vita.
Ma tutto ciò era ancora legato al desiderio di svelare l’ignoto e nulla aveva a che fare con ciò che oggi intendiamo per turismo.
Fintantoché si usavano mezzi quali le carrozze o le navi, si riusciva a sovrapporre il tempo trascorso negli spostamenti con lo spazio attraversato. Già con il treno questa consapevolezza è andata via via scemando per poi scomparire del tutto da quando ci si sposta in aereo. Andiamo alle Maldive piuttosto che alle Canarie senza sapere esattamente collocarle su una carta geografica o su un mappamondo. Ci sono quelli che fanno collezione di luoghi visitati, e al loro ritorno non sanno raccontare altro che il cibo che hanno mangiato o descrivere l’Hotel in cui hanno soggiornato.
Il turismo è promosso come fonte di crescita economica ma nessuno si preoccupa di preparare il turista alla conoscenza preventiva del luogo che andrà a visitare. Cosicchè il “fruitore di pacchetti turistici” – definirlo viaggiatore è davvero troppo – si trova spiazzato quando arriva a destinazione: non capisce la lingua, non ha contatti con le popolazioni locali ad esclusione delle quattro chiacchiere con la guida o con il cameriere che li serve al ristorante. In una parola non è attrezzato culturalmente al luogo in cui soggiornerà per pochi giorni: e di conseguenza non lo capisce.
E già fa capolino l’epoca in cui la realtà virtuale si sostituirà alla realtà vera, il tempo in cui, come diceva Chalmers “una realtà virtuale potrà essere indistinguibile dalla cosa reale”. In questo mondo il turismo non sarà più un settore fiorente del mondo, ma sarà il mondo ad attardarsi nel turismo.
Ma tornando all’inizio, che cosa risponderà l’amico all’amico che gli domanda “dove vai in vacanza?”. Forse gli dirà: “Da nessuna parte: in attesa che il tutto si trasferisca qui”.