Lunedì 12 dicembre, alle 23:30, il programma televisivo “Cronache criminali” ha ripercorso le tragiche vicende dell’assassinio (premeditato) di Sergio Ramelli, giovanissimo attivista del Fronte della Gioventù nella Milano degli anni Settanta.
In tanti si sono chiesti come mai una vicenda del genere, a quasi cinquant’anni dagli eventi, venga relegata ad una seconda serata che finisce per diventare notte inoltrata di un giorno feriale. In molti hanno seguito la puntata condotta da Giancarlo De Cataldo con la speranza che fosse portata alla luce la violenza di quella parte politica che nel corso degli anni di piombo provò a farsi largo con spranghe, chiavi inglesi e pistole e sulla cui matrice c’è poco da discutere: fu quella comunista e anarchica!
Quelle stesse persone, però, probabilmente hanno spento il televisore con la solita sensazione di aver assistito ad un’occasione mancata, l’ennesima dopo i film (pochi) sui martiri delle foibe o le violenze, fisiche e sessuali, delle truppe alleate nella risalita lungo lo Stivale (le cosiddette marocchinate).
In questo Paese c’è una parte di persone con una chiara connotazione politica che conosce queste vicende non perché le ha studiate a scuola, non perché se ne occupano la tv nazionale o le piattaforme streaming ma perché ne ha avuto nozione in famiglia, come quando in epoca più remota era la parola, ancor prima della scrittura, a tramandare vicende, epopee e semplici storie da un individuo all’altro.
Il maggior rammarico di un prodotto televisivo che ha avuto comunque il merito di intervistare i protagonisti, su tutti Guido Giraudo autore del libro “Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura” (EdiStorie), è rappresentato dalla seconda parte e dal titolo stesso fornito alla puntata.
Se, infatti, il programma viene presentato con l’intento di fornire «undici casi di cronaca iconici, undici storie che, dagli Anni ’60 ad oggi, hanno fatto epoca, segnando il destino delle vittime, ma anche la nostra società» non si può porre il paragone con altri delitti compiuti in altre zone d’Italia, non si può intitolare l’intera vicenda “Anni 70. La violenza politica”.
Allargare il raggio significa disperdere l’attenzione, parlare di stragi la cui matrice non è mai stata definita o non si è mai voluta trovare significa annacquare il messaggio di fondo. Proprio come certe targhe che ricordano in maniera troppo sommaria i ragazzi caduti nel corso di quegli anni, spesso semplicemente «vittime dell’odio politico», sarebbe bene individuarlo una volta per tutte questo odio politico e fare i conti con la storia e la realtà.