Kemal Kilicdaroglu. È il nome del candidato atlantista per la presidenza della Turchia in contrapposizione all’attuale presidente Recep Tayyp Erdogan. Le elezioni dovrebbero svolgersi il 14 maggio e l’opposizione – sostenuta da Washington – farà di tutto per detronizzare Erdogan, penalizzato anche dal disastroso terremoto che ha provocato decine di migliaia di vittime.
Kilicdaroglu, settantaquattrenne, non ha un grande carisma e sino ad ora non è stato un uomo di successo. In realtà parte dell’opposizione avrebbe preferito candidare i sindaci di Ankara e Istanbul, ma alla fine Kilicdaroglu è riuscito a compattare sei formazioni alle quali potrebbe aggiungersi il partito democratico popolare filo curdo.
Un fronte indubbiamente numeroso che cercherà di metter fine, in nome degli interessi statunitensi, ai giochi pericolosi di Erdogan sulla scena internazionale. La Turchia, in quest’ultimo anno, è riuscita a ritagliarsi un ruolo da protagonista sia nella guerra tra Russia ed Ucraina – condannando la Russia ma senza adottare le sanzioni dei maggiordomi di Biden, favorendo la ripresa delle esportazioni di grano ucraino ma anche di quello russo – sia nel Mediterraneo, con la prospettiva di diventare l’hub energetico di riferimento per parte dell’Europa e del Vicino Oriente. Senza dimenticare il ruolo militare in Tripolitania.
Ovviamente l’indipendenza di Erdogan e di Ankara ha fatto infuriare gli atlantisti. Non solo Washington ma anche i maggiordomi europei. Infastiditi per il dinamismo, per la libertà di movimento, per le alleanze sempre più vaste.
Dunque occorre “normalizzare” la Turchia. Innanzitutto per togliere a Mosca un partner fondamentale e poi per eliminare un pericoloso concorrente per i Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo e non sono in grado di avere una politica estera almeno decente.
Poco importa, a costoro, che un cambiamento della leadership turca significherebbe un aggravamento del conflitto in Ucraina ma, ancor di più, un ritorno agli scontri in Siria, ad un peggioramento dei rapporti con l’Iran, ad una maggiore instabilità in tutto il Nordafrica. Una pacchia per i mercanti di armi. Una pacchia per gli speculatori del gas e del petrolio. Una fregatura innanzitutto per i turchi, a meno che l’Europa si faccia carico di tutto ciò che Ankara perderebbe da una rottura con la Russia e, subito dopo, con la Cina. Costi enormi che dovrebbero pagare i popoli europei, costretti a diventare sempre più poveri.