Cioran. Il grande “pessimista”, se vogliamo nichilista, del ‘900. Uno al cui confronto il nostro Leopardi era un animo allegro e contento. Cioran scrive ad un amico letterato (ed editore) sudamericano, Ben Ami Fihman.
E parla… beh, della fine della Storia. Ovvero del capolinea cui, ad avviso di entrambi, sta giungendo la specie umana. Per cui parlare di storia, di futuro è peggio che inutile. Un esercizio ozioso. Un onanismo intellettuale.
È interessante. La lettera di Cioran è di molto precedente un libro che fece discutere negli anni ’90. “La fine della storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama. Una apologia, o se vogliamo la celebrazione ideologica del trionfo americano nella Guerra Fredda. Tra l’ottimismo reaganiano, e Bill Clinton che suonava il sax.
Ma Fukuyama era felice che la Storia stesse finendo. Vedeva, come il famoso prof. Panglosse del Candide di Voltaire, prossimo alla realizzazione il migliore dei mondi possibili. Un unico modello sociale. Un unico sistema economico. E, soprattutto, un unico tipo di uomo. Tutti uguali, tutti uniformi nel pensiero, nel modo di vivere… nella morale. Da qui la fine dei conflitti. E, quindi, della storia.
Come sia veramente andata poi, lo abbiamo sotto gli occhi. Se non sono foderati di prosciutto….
Ma Cioran, il grande insonne, non era certo così ottimista. E banale. Per lui la civiltà umana, questa nostra civiltà, era prossima a esaurimento. A consunzione, come un abito indossato per troppo tempo. Ormai liso, e a brandelli. Incapace, quindi, di coprire e difendere dal freddo.
Due modi, radicalmente, diversi di guardare alla storia. E al suo fine. Il fine cui tende, il “tèlos” della filosofia politica greca .
Da un lato il politologo nippo-americano. Una storia finalizzata a realizzare l’Utopia. Il Paradiso in terra, Che, inevitabilmente, si trasforma in incubo. In Inferno per la maggioranza. Come sempre è avvenuto, da Robespierre a Pol Pot. E non significa nulla che questo paradiso infernale abbia le parvenze della democrazia. La sostanza non cambia: voler costringere gli uomini, quelli veri, di carne e sangue, in un letto di Procuste astratto. Che distrugge tutte le storie individuali. Tutte le culture. E annichilisce ogni speranza nel futuro.
Poi, il grande nichilista rumeno. Diventato uno dei prosatori più eleganti, e profondi, nella lingua di Montaigne. La lucida, realistica e spietata, contemplazione del declino. Che non può non portare alla fine di una storia. Di un’epoca di civiltà. Che ha perduto se stessa. E quindi, semplicemente, non ha più senso. Ma questo non comporta la fine della Storia. Perché questa non esiste. Non come linea continua, finalizzata a uno scopo. Ad una, astratta, perfezione. Le civiltà sorgono, si sviluppano sino ad un apice. Declinano. Muoiono. E ne sorgono altre. Diverse. Il tempo non è lineare. È ciclico. E la vicenda umana non è una sola commedia o tragedia. È un susseguirsi di rappresentazioni. Diverse.
Cioran vede con lucidità che una di queste, la nostra, più una tragicommedia che altro ormai, si avvia a conclusione. Non si entusiasma né deprime. Solo, attende che cali il Sipario.