È un’alluvione, un torrente in piena, un profluvio ininterrotto di articoli, saggi, dichiarazioni, alcune pregiudiziali, altre più camuffate ma tutte nella stessa, apocalittica direzione: Internet è il peggiore di tutti i mali e i social sono il peggio del peggio. Volgarità, odio, ignoranza… Qualche esempio? “Anti-social. Online Extremists” di Andrew Marantz, giornalista del New Yorker, “Nuova era oscura” di James Bridle, “Come Internet sta uccidendo la democrazia”, Mauro Barberis è uscito per Chiarelettere senza nemmeno il beneficio del dubbio, un minimo di articolazione, come in “Democrazia e potere dei dati” di Antonello Soro, “Da Rousseau alla piattaforma Rousseau” di Salvatore Cannavò, “The game” di Alessandro Baricco, “Il sogno (o l’incubo) di una democrazia digitale” di Sebastiano Maffettone.
Sono lontani i tempi in cui si guardava alla Rete come a una piattaforma di libertà da utilizzare contro i poteri forti. I tempi anarcoidi di Edward Snowden, accusato di spionaggio per aver reso pubblici alcuni documenti segreti sull’Nsa, l’Agenzia per la sicurezza Usa (storia raccontata in “Errore di sistema”) e di Julian Assange, leader di WikiLeaks, portale dei documenti riservati inviati da fonti anonime.
Nel frattempo i potenti hanno cominciato a usarli, web e social, divenendone assieme padroni e vittime. Tutti, dai progressisti ai populisti e sovranisti visti come il fumo negli occhi dal mainstream cui appartengono molti dei citati apocalittici. Donald Trump è il numero uno: 142 tweet nella sola giornata del 22 gennaio in cui si sono aperte le arringhe per l’impeachment; 45 postati nel giorno dell’apertura del procedimento… I cinguettii del presidente Usa si contano in decine di migliaia (e i suoi seguaci in decine di milioni) e lui stesso ha ammesso che questa bulimia crea dei problemi. Anche Matteo Salvini, all’epoca del suo incarico di governo, spopolava nella rete con selfie e clip.
La frattura è quindi tra intellettuali politicamente corretti e politici reazionari? La contrapposizione è banale, le sfuggono alcune elementari considerazioni: Bloomberg ha pagato 500 influencer per rifarsi l’immagine dopo il fallimentare avvio della sua campagna elettorale, sui social proliferano parodie, sfottò e attacchi contro Salvini e Trump, che con Twitter e Tik Tok ha intrattenuto durissimi scontri: le piattaforme social non sono certo di destra, basti ricordare lo scontro tra Facebook e Casa Pound. Sono degli strumenti di comunicazione che la politica ha avocato, l’ex ministro Fioramonti per esempio ha raccontato di aver informato delle sue dimissioni il premier con un whatsapp.
Diciamo che la contestazione di certa inteligentija ha quale obiettivo proprio l’estrema “democraticità” di mezzi di comunicazione che non distinguono, che non richiedono alcun requisito culturale o politico per cercare di affermarsi e in cui il successo, fatto ancor più destabilizzante, non obbedisce ad alcuna previsione. Inoltre, i social network rappresentano una concorrenza insidiosa per i media tradizionali come tv e carta stampata, che però non possono prescinderne: persino una battuta di Rita Pavone o di una stellina da talk show diventa una “notizia” per quotidiani e talkshow.
La soluzione sarebbe quella crossmedialità che, tra molte difficoltà, negli Usa ha portato il New York Times a triplicare il massimo storico di copie vendute su carta grazie a quelle digitali. E di cui in Italia non esiste nemmeno l’ombra. Un certo mondo ideologico-culturale resiste all’innovazione mediatica perché non sa gestirla e rimpiange un sistema di comunicazione controllato, monodirezionale, ipodermico, pavloviano. E l’analogo concetto di democrazia, di rapporto tra cittadini e rappresentanti, elettori ed eletti, società e istituzioni.
Così si spiega anche la nostalgia della cosiddetta prima repubblica, gli elogi indifferenziati alle figure istituzionali dell’epoca, saggi come “L’abc della democrazia” di Guido Calogero e articoli come “Così ritorna il bisogno di istituzioni” di Roberto Esposito. Come se quell’establishment non fosse stato rottamato per la mancanza di alternanza, la corruzione, il clientelismo, l’indebitamento, l’inefficienza, il terrorismo, le stragi impunite, la mai scalfita criminalità mafiosa.
Se fossimo seri dovremmo prendere atto di alcune realtà, dall’assoluta democraticità dei new media all’intatta vitalità della “piazza”, che non è stata spazzata via dalla comunicazione digitale, gli esempi non mancano di certo: Spagna, Italia, Iran, Hong Kong, Bielorussia, Libano, Francia, States, Cile, Honduras…
Ma gli intellettuali preferiscono il migliore dei mondi possibili alla cronaca e ai fatti, non vogliono arrendersi alla constatazione che la “piazza” è sfuggita loro di mano sin dai tempi degli indiani metropolitani, della contestazione di Lama alla Sapienza, della pantera. Sperare di cavalcare oggi le Sardine o i Fridays for Future è assolutamente ridicolo. Rivangare i tempi in cui la democrazia diretta era limitata al faticoso iter referendario, peraltro vanificabile con una lieve modifica legislativa (si pensi al finanziamento pubblico dei partiti e alla responsabilità civile dei magistrati), dopo il web 2.0 è altrettanto ridicolo.
Ai “Palazzi” non resta dunque che arroccarsi arrogantemente nella propria impunità e immunità, negare una legge elettorale che consenta di stabilire con certezza chi governerà, incaricare premier non eletti e governi di coalizioni inopinate, usare in modo privatistico e nepotistico le cariche pubbliche.
Nessuno nega che il consenso in “real time” produca esiti paradossali, com’è accaduto per la Brexit, ma un nuovo sistema di rappresentanza e istituzionale coerente con l’evoluzione socio-economica, culturale e tecnico-scientifica deve passare per un’analisi spietata della realtà. Ad esempio con dei progetti di “democrazia diffusa” e “deliberativa” dei quali ha parlato nei mesi scorsi Giuseppe Remuzzi sul Corriere, auspicando l’allargamento delle basi decisionali e un miglioramento della qualità delle informazioni.