Un quadro di Edward Hopper. La tavola calda. Una donna seduta, l’abito verde bosco, il cappello stile anni venti . Intorno…nulla. Se non un arredo squallido, banale. È il 1927. Un luogo come tanti negli States di quegli anni, che stavano per entrare nel lungo tunnel della Grande Depressione. Poi, i libri di scuola ci racconteranno che fu il New Deal a salvare l’America. E la politica di Franklin Delano… Mai avranno il coraggio di ammettere che fu, invece,… Adolf Hitler. Perché ci volle una guerra mondiale per far riprendere Wall Street dal baratro in cui era precipitata. Per la follia criminale del nuovo capitalismo finanziario. Che, comunque, rispetto a quello odierno, sembra un gruppo di boy scouts…
Comunque, là, in quella tavola calda, quella donna è sola. Intuiamo, non vediamo, che, al di là del vetro sullo sfondo, vi deve essere una strada urbana. Una città. Forse una città di provincia. Probabilmente, però, una metropoli. Quale, non conta. Perché in fondo si assomigliano tutte…
Hopper sembra già intuire la depressione. Che è morale, psicologica, prima di divenire economica. Di farsi quella disperazione che verrà cantata nei romanzi di Faulkner. Il Borgo. Santuario… Un nuovo epos della tristezza. E della solitudine moderna.
Hopper è, tra i maggiori esponenti del nuovo realismo americano, il cantore della solitudine urbana. Certo, non ha dipinto solo questo tema…ma è quello che ritorna ossessivo.
Realista..ma se osservo questo quadro, questa tavola calda, mi sembra di intuire una qualche profondità metafisica. Un astrarsi dalla realtà concreta, materiale…per cogliere altro.
Il gioco dei volumi. La luce fredda. L’eleganza, ancorché dimessa, della donna. Una bellezza che, intuiamo, sta sfiorendo.. Il termosifone di ghisa in un angolo. Che trasmette una sensazione di gelo. Il vaso di fiori sul tavolo, una nota di rosso. E la sedia vuota davanti alla donna.
Solitudine. Appunto.
Una solitudine tutta moderna. Tanto più squallida perché non voluta. Tanto più triste perché in mezzo alla folla urbana. Dove si è disperatamente soli. E però, mai si può trovare un autentico momento per raccogliersi in se stessi.
Una solitudine ben diversa da quella dell’anacoreta. Che contempla, nella pace interiore, il deserto. E davvero solo non si sente. Mai. Perché la sua è una scelta. Leggete “Le acque di Siloe” di Thomas Merton. La vita contemplativa di un cistercense. La scelta della solitudine come ricerca spirituale. La Trappa, nella quale lo stesso scrittore si ritirò. Juri Camisasca, che è passato per la stessa esperienza, ne ha tratto ispirazione per un canto e una musica di rara suggestione.
Hopper e Merton sono (quasi) contemporanei. Entrambi statunitensi. Entrambi con l’esperienza delle metropoli che disgregano ogni tessuto comunitario. Che riducono l’uomo ad individuo anonimo e anomico. Sempre più privo di relazioni affettive. Sempre più solo.
Hopper ne dipinge la disperazione che annichilisce. Merton ricerca, e narra, un’altra solitudine. Prescelta e amata. Allo scopo di ritrovare se stessi.
Sono passati più o meno settant’anni. L’America che uno racconta coi colori, e l’altro fugge nella preghiera, ora è diventata pressoché il Mondo intero. Un modello che domina l’occidente. E che vorrebbe venire imposto a tutti i popoli e tutte le latitudini.
Una solitudine sempre più assoluta. Disperata.
È questo il meraviglioso mondo nuovo cantato dagli apologeti delle magnifiche sorti e progressive.
Hopper lo ha visto. Merton ha cercato di evadere dalle maglie della gabbia che si stavano cominciando a stringere…