Augusto Grandi, Sotto Sistema Torino, Torino 2020
Vingt ans après: come nel romanzo di Alexandre Dumas, così in questo ultimo libretto di Augusto Grandi che, per quanto garbato nella polemica e nella satira, potrebbe dirsi un pamphlet, nel senso che – giusta la definizione di Louis-Marie de Cormenin – si rivolge a tutti poiché «argomenta con il ragionatore, presenta cifre al matematico» per «chiacchierare» con il pubblico dei lettori, colpiscono a tutta prima il pathos e lo spaesamento. E quindi un persistente e diffuso fondo di amarezza. Quella di chi, pur senza cullarsi nelle illusioni di una svolta e di un cambiamento, riteneva improbabile un peggioramento della situazione.
A vent’anni dal suo libro sul Sistema Torino, in cui Grandi, con una onestà intellettuale che lo smarcava ad un tempo dal pensiero unico e dalla political correctness, smontava il mito della “diversità subalpina” a più riprese decantato da Sergio Chiamparino, scopriamo che la struttura di potere non è granché cambiata.
Con un’operazione degna del gattopardo, la consorteria oligarchica che prima si stringeva, servile, attorno agli Agnelli, cooptando cooptando, è riuscita a disinnescare ogni anelito di discontinuità. Chiara Appendino ha sì «intercettato la rabbia degli esclusi» e «delle periferie», ma non ha saputo – e forse nemmeno potuto, data la sua estrazione sociale e la mancanza di vere competenze nel suo entourage politico – darle una degna rappresentanza o, se vogliamo, un’adeguata risposta. Finita l’egemonia degli Agnelli, che avevano “genialmente” saputo privatizzare i profitti e socializzare le perdite, si poteva giustamente sperare in un cambiamento di rotta o almeno nell’erompere, profittando della ritrovata “libertà”, di nuove energie imprenditoriali. Invece, con la Fiat, da Torino è pure scomparsa l’industria manifatturiera.
Non solo, ma, grazie ai silenziatori prontamente azionati da quelli che Grandi chiama «i media di servizio», maestri di piaggeria e di tartufismo, la stessa rivelazione di Margherita Agnelli sul tesoro nascosto all’estero dall’Avvocato suo padre passò quasi inosservata. E ancora stupiscono sia la “curiosa” disattenzione dei magistrati subalpini sia l’indifferenza della giustizia e di Equitalia di fronte a questo caso. Ma stupiscono di meno alla luce di quanto il libro, con stile terso e ficcante come lo spillo di un entomologo, descrive, sciorinando sotto i nostri occhi lo spettacolo di un mondo chiuso, dove magistrati e politici fanno comunella, con il placet dei banchieri e dei «prenditori» abituali. Mentre i pastori d’anime locali, sempre pronti a stigmatizzare i sovranisti contrari all’accoglienza indifferenziata, fanno finta di niente o recitano le consuete giaculatorie di banalità.
D’altra parte a beneficiare dell’«ottima amministrazione», di ultraventennale durata, di una consorteria politica di orientamento prima comunista e azionista, poi sempre più liberal, via via che le fortune delle due anime originarie sfiorivano e il comunismo in particolare si stemperava in luogocomunismo, erano stati i radical chic del centro e dei quartieri gentrificati, le banche e i palazzinari. A scapito delle periferie e della fauna umana, non sempre raccomandabile, ma colpevolmente lasciata a se stessa, che le popola («i centomila poveri»).
Per quanto «i media di servizio» si siano affannati a celebrare le trasformazioni culturali, ambientali e infrastrutturali della città, prendendo spunto dalla riqualificazione del centro urbano (promosso a «salotto») e dalla realizzazione della metropolitana da sempre osteggiata dalla Fiat, i nuovi amministratori non sono stati in grado di dare uno sbocco alla crisi – non solo economica – in cui Torino è scivolata. Senza che essi se ne avvedessero e se ne rendessero del tutto conto, presi com’erano a perpetuare gli stanchi riti di un Sistema in sfacelo.
Se ne sono invece accorti i cittadini o, meglio, la popolazione «fuori del giro», che, non avendo la Destra proposto un’alternativa credibile, si è infine orientata verso i 5 Stelle. Ma l’illusione è stata breve: al Sistema è solo subentrato un Sottosistema. Visti i risultati, si potrebbe pure parlare di una degenerazione, giacché il Sottosistema «non è neanche organizzato, non è compatto, non è strutturato. Dunque è ancor più sensibile al canto di qualsiasi sirena». Vive d’improvvisazione. Poche e confuse le idee. In ribasso la cultura. Il politicamente corretto «che impedisce di spazzar via le sacche sempre più estese di criminalità». La mediocrità che fa aggio sul merito e sul talento. Un ceto dirigente che vive di «relazioni ed interessi incrociati», di piccoli e grandi scambi di favori.
Altro che borghesia illuminata. Sparagnini e miopi gli sponsor, i privati «che non credono nella ricerca, nell’innovazione, nello studio e nell’impegno»: tutti comunque propensi a pietire aiuti dallo Stato, a lamentarsi e mugugnare, invece di assumersi le proprie responsabilità. Si spiega così perché Torino faccia davvero rima con declino.
Grandi ha buon gioco a mostrare come al riassetto del centro cittadino, dopo decenni di abbandono, non abbia corrisposto una seria riqualificazione delle periferie, che hanno anzi pagato i costi dell’operazione «salotto», diventando sempre più brutte e invivibili. Ed hanno visto crescere come funghi centri commerciali e supermercati – veri e propri «non luoghi» – al posto dei cinema e delle concessionarie d’auto. A spese dei piccoli negozi e dei mercati rionali. Si è puntato sul turismo, neanche Torino fosse la costiera amalfitana; sui grandi eventi finanziati dalle solite partecipate e fondazioni bancarie politicamente interessate; sull’enogastronomia in voga. Tracurando colpevolmente i giovani e le loro esigenze («centri di aggregazione intelligente, spazi per la musica, per l’arte») sì da sottrarli al caos delle movide e alla tentazione delle droghe. Il progressivo degrado si tocca pertanto con mano e va via via crescendo con la perdita d’identità, con il distacco dalle radici e l’oblio di ogni autentica vocazione. E l’isolamento della città è sempre meno splendido.
L’Autore non si limità tuttavia alla pars destruens, sottolineando dei vizi o dei difetti, come la mancanza di vera socialità, l’incapacità di fare rete, di progettare e di programmare in grande, premiando, non solo a parole, il merito e l’intraprendenza – e fin qui, mutatis mutandis, sembra di leggere il Discorso sopra lo stato dei costumi degl’Italiani di Leopardi: il che induce a pensare che la situazione torinese non sia troppo diversa da quella dell’intera nazione -, ma indica e suggerisce delle alternative, delle vie percorribili, degli esempi da incoraggiare e da seguire. Fa i nomi di Ferrero, di Lavazza, di Giovanni Quaglia, di Umberto Palermo, di Marco Testa, di Paolo Vitelli, di Antonello Marzolla, e via elencando. Quasi tutti torinesi, d’origine o di adozione, che avrebbero molto da insegnare ai loro concittadini, ma che hanno il torto di non essere facilmente addomesticabili. E soprattutto di essere intelligenti, intraprendenti e lungimiranti: quanto basta per destare i sospetti di un’oligarchia dal «braccino corto» e dal «cervello piccino» arroccata a difesa dei propri privilegi.