La sera d’estate, quando il sole va giù e ci concede un po’ di respiro, mi piace andare al cinema all’aperto.
Mi piace così tanto che certe volte non controllo nemmeno che cosa proiettano. Così qualche sera fa mi sono trovato a vedere un film che a saperlo prima probabilmente avrei evitato.
Parliamo di “Spencer”, per la regia di Pablo Larraín, interprete principale Kristen Stewart.
Quando inizia il film non ho ancora realizzato che “Spencer” sta per Diana Spencer, la principessa, ma ci vuole poco.
Le prime inquadrature sono su di lei in macchina, persa nella campagna inglese. Si ferma ad un fastfood e chiede informazioni. Nel locale si fa subito un imbarazzante silenzio, sarà proprio lei? E che ci fa tutta sola senza l’autista e la scorta?
Da questo momento la camera di Larraín non smetterà più di seguire la Spencer. Tutte le inquadrature sono sue, non c’è una scena in tutto il film dove lei non sia presente. L’effetto è quasi claustrofobico. Forse il regista ci vuole dire:
“vedi come dev’essere avere sempre gli occhi addosso? Qualcuno che ascolta e giudica tutto quello che fai e che dici, come ti devi vestire, cosa devi mangiare, quando e dove devi fare questo e quello?”
Mi chiedo se dopo una decina di film e una fortunata serie tv ci fosse ancora qualcosa da raccontare sulla principessa Spencer. Pare che Pablo Larraín, regista cileno famoso per la sua trilogia sulla dittatura, la pensi diversamente. Lui vuole raccontarci la Diana più intima e tormentata, quella prima della separazione dal marito, le origini e le motivazioni che hanno innescato la rottura tra lei e tutto il mondo dei reali d’Inghilterra.
Il risultato? È indubbio che regia, cast e il resto della troupe sappiano il fatto loro. L’estetica e tutta la confezione della pellicola sono di ottimo livello, ma il film mi ha emozionato?
Purtroppo devo dire di no. Se l’intento del regista era farmi sentire tutto il peso della condizione di essere principessina incompresa allora forse sì, però solo in parte. Direi, correndo il rischio di essere troppo brutale, che l’effetto maggiore che il film ottiene è la noia. Una noia opprimente fatta di cose che si devono ripetere sempre identiche in un riaffermarsi, senza possibilità di cambiamento alcuno, di un passato (la tradizione) che diventa presente ma non sarà mai futuro.
Ed è proprio il futuro negato a lei e soprattutto ai suoi figli (occhio che questo è uno spoiler) che le farà decidere di lasciare la sua gabbia dorata per cercare di costruirsi una vita sua, libera anche, come vediamo nell’ultima scena, di andarsi a mangiare un hamburger in uno squallido fastfood.
Per scrivere questo pezzo mi sono rivisto il film altre due volte. Rivedendolo, come spesso succede, ho notato particolari e capito riferimenti che mi erano sfuggiti e questo mi ha portato a rivalutare la pellicola che ad una prima visione mi aveva profondamente annoiato.
Il problema è che, malgrado tutto, ho continuato ad annoiarmi anche nelle successive visioni.
Sarà perché il film è pensato per raccontarci il peso di un’esistenza già scritta e determinata, dove la cosa più importante è apparire sempre bella, sorridente e vestita in modo appropriato e chi se ne frega se tuo marito ha l’amante e lo sanno tutti. Una esistenza noiosissima appunto. Senza la possibilità di fare nessuna scelta indipendente.
Io, che invece per fortuna godo di una certa libertà di scelta, ho deciso di recensire questo film ben cosciente che sarebbe stata una po’ una stroncatura. Il mio consiglio resta però sempre lo stesso: andate al cinema a guardare questo film e giudicatelo con il vostro metro. Se poi però a metà proiezione vi viene la bolla al naso non dite che non vi avevo avvertito.