L’inverno sta entrando nella sua fase più profonda. E, a ben pensarci, crudele. Certo, quasi impercettibilmente, le giornate, dal Solstizio in poi, si vanno allungando. E le notti divengono più brevi. Però il gelo attanaglia l’intera Terra. La stringe in una morsa che non si allenterà prima della fine di Gennaio.
Trascorso Natale inizia quello che Shakespeare chiamò “l’inverno del nostro scontento”. Gli uomini si sentono soli. Circondati dal gelo, che è sì esterno, ma, al contempo, anche una sorta di esperienza interiore.
Eppure questa solitudine è illusoria. L’inverno è, in realtà, popolato di presenze. Di una vita intensa, a suo modo febbrile. Un vita che, ordinariamente, non percepiamo. Ottusi in noi stessi. Nelle nostre preoccupazioni. Nella nostra paura…
Basterebbe volgere lo sguardo intorno, o magari fare una passeggiata. In campagna, meglio ancora in un bosco. Dove, si spera, non siano appostati i solerti delatori del Conte Zio. Dove vi sia silenzio autentico. Profondo. Non il muto frastuono delle città, in questi strani giorni…
Camminare e guardare. Svuotandosi di ogni pensiero. Di ogni sapere e pretesa di sapere.
Guardare. La galaverna che disegna, tra i rami spogli, incredibili architetture. Traslucide e intricate. Un intreccio di scale, ragnatele, rosoni, mosaici. Un gotico incantato, quale neppure la fantasia di un Escher riuscirebbe mai a concepire…
E poi sugli abeti, dove perenni verdeggiano le foglie aghiformi. Una decorazione rilucente e luminosa, ancor più sotto i raggi della Luna che nel raro sole. Boschi di alberi di Natale, così come i bambini, ancora capaci di sognare, li intuiscono circondare le Dimore Polari di quello che siamo usi chiamare Santa Claus.
E la neve, a ingombrare i sentieri. A fiocchi sui cespugli di rovi, sui rami di vischio abbarbicati alle querce, sull’agrifoglio, sul pungitopo…
Il ghiaccio, poi. Che scricchiola sotto il passo incerto. E riverbera dalle pozze e dagli stagni, con sfumature dell’azzurro. Del grigio, e dello smeraldo…

Il silenzio di un luogo come quello lascia intuire, percepire non con gli occhi, presenze. Che, naturalmente, sono anche qui in città. Ma che, qui, vengono obnubilate, oscurate dalla monotonia dell’esistenza ordinaria. Che condiziona il nostro guardare. E ci rende, di fatto, ciechi.
Sono gli Spiriti dell’Inverno. Presenze di cui possiamo ritrovare memoria nelle fiabe e nelle leggende popolari. Il Jack Frost delle Isole Britanniche. Il Ded Moroz, o Nonno Gelo del profondo inverno russo. Lo stesso Babbo Natale e la sua schiera di elfi. E ancora la Lussia scandinava, scesa sino al Mediterraneo con i Longobardi, come già ho raccontato. E gli gnomi, che custodiscono i cristalli preziosi, sale scintillante della Terra. I sette Nani della fiaba di Biancaneve vengono da li…
Presenze fiabesche. E, al contempo, numinose. Non sempre rassicuranti, tuttavia. Perché, nel profondo inverno, vi sono altri Spiriti che vagano. E si agitano. Minacciosi. Inquietanti. La mostruosa Gryla della tradizione islandese, e la Perchta o Berta germanica. Gigantesse delle Nevi, che talvolta, certo, portano qualche dono, per lo più biscotti o altri dolciumi… Ma più spesso puniscono, in modo crudele. Rapendo. Squartando.

Sono sempre immagini, presenze della stagione del gelo. Che, talvolta, cogliamo, con la coda dell’occhio, riflesse in una pozza ghiacciata. Più spesso le vediamo nei sogni. Soprattutto in queste notti. Quelle tra la Vigilia di Natale e l’Epifania. Quando il sognare si fa più intenso. Anzi più denso, tangibile, quasi. E ci pare di poter vivere in altra dimensione. Reale.
Di cui quella che, ordinariamente, siamo usi considerare l’unica realtà diviene solo un vago, deformato, riflesso.
Dura poco, certo. Ma ci lascia sempre una strana sensazione. Come se… Non appartenessimo davvero a questo mondo.
Pensieri strani, lo so. Divagazioni di una notte d’inverno. L’inverno, appunto, del nostro scontento…