Dopo la sua tragica dipartita, lo scorso 13 Giugno, la figura di Cormac McCarthy è entrata a pieno diritto nel firmamento della grande letteratura americana contemporanea insieme a nomi leggendari del calibro di Faulkner e Hemingway.
Non che non ci fosse già, lassù, nell’Olimpo degli autori di razza. Quegli autori dallo stile inconfondibile e con la capacità di rinnovare sé stessi e la propria opera a ogni nuova uscita, come a voler portare avanti un lungo e articolato discorso senza soffermarsi ma sempre cercando nuovi sguardi e prospettive sulla propria visione del mondo.
Con Stella Maris (traduzione italiana di Maurizia Balmelli, pp. 200, Einaudi, 2023), la seconda parte di un’opera doppia cominciata con “Il Passeggero” (già recensito sulle nostre pagine) McCarthy ha chiuso la sua brillantissima carriera e ciò che resta a noi lettori è la sua sperimentazione massima, uno strano quanto splendido canto del cigno disperato che è la somma di tutto il suo lungo percorso artistico e letterario.
Dopo aver seguito la tormentata storia di Bobby Western in “Il Passeggero”, questa volta ci troveremo a leggere dei turbolenti moti interiori di sua sorella Alicia, una donna brillante dal QI stratosferico che ha votato la sua vita allo studio della matematica e la cui intelligenza è pari solo alla sua follia, data la sua condizione di persona affetta da schizofrenia con tendenze suicide sin dalla più tenera età.
La storia è sostanzialmente ridotta all’osso: Alicia nel 1972 si presenta alla clinica psichiatrica Stella Maris con quarantamila dollari in una busta. Una volta ricoverata la donna, appena ventenne, viene affidata alle cure del dottor Cohen, che si ritroverà ad affrontare con Alicia il caso più difficile della sua carriera di psichiatra. Questo è, in sostanza, l’intero plot del romanzo.
Una trama estremamente minimale (per alcuni potrebbe esserlo anche fin troppo), ma questa “mancanza” è necessaria a fare spazio, nelle 200 pagine che compongono il romanzo, all’esplorazione del mondo interiore di Alicia attraverso i suoi monologhi interiori e le sue sedute con il dottor Cohen che con la sua presenza diventa quasi lo specchio dell’uomo comune, sempre un passo indietro di fronte all’imponente e oscura genialità malata della donna, ma determinato nell’intento di sondarne le profondità anche se questo dovesse costargli ogni certezza.
Il libro è quasi esclusivamente composto da dialoghi e monologhi in una struttura che non si può definire in altro modo se non atipica e straniante per i lettori abituati a letture più standard. La capacità di McCarthy di scrivere e descrivere conversazioni brillanti è qui portata al suo limite estremo.
I lettori più curiosi si perderanno con estremo piacere (e qualche punta di inquietudine esistenziale) all’interno del labirinto della contorta mente di Alicia, in un dedalo di citazioni, osservazioni nere, cortei di allucinazioni e storie di vita tanto terribili quanto toccanti in cui l’unica (e rara) luce sembra essere l’amore morboso della donna per suo fratello Bobby, che nella timeline di Stella Maris è ancora preda di un coma profondo a seguito di un grave incidente stradale.
Dalle teorie scientifiche di Grothendieck e Gödel, Maxwell e Feynman per passare poi alla filosofia di Kant, Schopenhauer e Wittgenstein, McCarthy attraverso Alicia ci mostra il culmine del suo lavoro di intellettuale e della sua ricerca filosofica e scientifica nei campi più disparati del sapere umano. Una rete di citazioni e riferimenti che Alicia utilizza per esporre la sua visione profondamente pessimistica del mondo in un tentativo di nascondere al dottor Cohen, al mondo (e forse anche a sé stessa) le ferite più profonde della sua anima.
Togliamoci il dente: Stella Maris è un libro complesso e stratificato, ancor di più del suo “gemello” e potrebbe frustrare ben più di un lettore nel tentativo di decifrarne i significati più nascosti. La sua struttura peculiare e la sua prosa costellata di citazioni dotte sono di difficile navigazione e non risparmieranno nessun tipo di colpo ai lettori più incauti. Alla sua uscita negli Stati Uniti il libro ha diviso anche gli stessi fan dello scrittore americano, tra chi considera questo libricino il suo “magnum opus” e chi invece un esperimento ambizioso ma riuscito solo a metà.
Quello che si può dire in questa sede è che, a prescindere da chi abbia ragione, questo romanzo rappresenta in un modo o nell’altro la fine di un’epoca nella letteratura americana contemporanea e farà sicuramente parlare di sé (insieme al suo romanzo “gemello”) negli ambienti della critica e dell’analisi letteraria ancora per molti anni a venire, così come si parlerà ancora per molto tempo del suo brillante autore.