Se vi è una Maschera per eccellenza, simbolo tanto della Commedia dell’Arte, quanto del Carnevale più classico, quello di Venezia, questa non può che essere Arlecchino.
Certo, ve ne sono molte altre. Pulcinella, napoletano, con una lunga, e melanconica, tradizione artistica e letteraria.
Poi le maschere locali. Balanzone a Bologna, erede della tradizione pedantesca, il gioco linguistico letterario dei goliardi del ‘500. I meno noti Stenterello, milanese, e Meo Patacca, romano, di cui diede grande interpretazione un, ancora giovane, Gigi Proietti.
E, per altro, la Commedia veneziana di maschere ne comprende molte altre. Brighella, il servo astuto, erede dello Pseudolus plautino, e progenitore del Jeeves del, geniale, Woodehouse. Pantalone, avido avaro e vecchio babbione che, dalle mani di Goldoni, viene riplasmato, e diviene paradigma del buon senso e della sobrietà della nuova borghesia. La seducente Colombina, madre di vedove scaltre e Mirandoline….
Ma Arlecchino è Arlecchino. E il simbolo del nostro Carnevale resta pur sempre lui.
E pensare che non solo non è veneziano, ma, in origine, neppure italiano.
Perché la sua origine va cercata in Francia. Nella figura di Hellequin, che si lega, a sua volta, ad una particolare versione della Cavalcata Selvaggia. Che è mito del profondo Nord, Wotan, Odhin… che i cristiani rilessero come demoni. Tant’è che Hellequin è nome germanico. Significa Re dell’inferno.
Poi il nostro è arrivato a Bergamo. Territorio della Serenissima Repubblica di Venezia. E li si è contaminato con la figura dello Zanni. Che poi significa Giovanni, diminutivo, nome molto diffuso tra i servi, uomini di fatica, che venivano a lavorare a Venezia. Provenendo dalle valli del bergamasco. E che, ai ben più raffinati veneziani, apparivano goffi e con una parlata grottesca… di qui l’Arlecchino servo sciocco per eccellenza. Una nomea che, poi, verrà riscattata, anche se solo parzialmente, dal solito Goldoni. Vedetevi “La famiglia dell’antiquario”. Se potete nella vecchia, e grande interpretazione, di Gianrico Tedeschi. Che faceva il nobile impallinato con gli oggetti antichi … e che Arlecchino imbroglia, con Brighella, fingendosi mercante armeno. E parlando, appunto, in un, esilarante e improbabile, armeno di Bergamo.
Ma prima di giungere a Bergamo, Arlecchino aveva fatto una sosta… importante. A Firenze. Dove il nome era Alikino. Finendo nientepopodimeno che nella Commedia. E con uno spazio di prima grandezza. Canti XXI, XXII, XXIII dell’Inferno. Il girone dei barattieri. I politici corrotti che bollono in un lago di pece. E che una schiera di demoni uncina, trae a riva e squarta…. ora sarebbe facile dire che, oggi, tale fossa è stracolma… ma sfuggiamo a queste banalità qualunquiste, limitandoci a sottolineare, una volta ancora, come la pensasse il Dante in politica. E, magari, come il tradizionale abito a losanghe multicolori della nostra maschera, ben si adatterebbe ad un mondo politico dove il cambio di casacca e la transumanza è prassi usuale…
Però l’Alichino dantesco è sì demone, ma demone buffo. Che inscena una grottesca contesa con un dannato. Che riesce, per altro, a truffarlo (ah, questi politici…). Dimostrazione della, spesso ignorata, maestria del Poeta anche nell’uso del registro comico. E, per certi versi, archetipo del Mefistofele del Faust e della sua, numerosa, prole. Sino al Maestro e Margherita di Bulgakov. E così un grande scrittore russo, di nascita Ucraina, ce lo sono comunque riuscito a cacciare dentro…
E poi ci sono le declinazioni artistiche di Arlecchino. Che richiederebbero un vero e proprio saggio, visto che la Maschera ha ispirato artisti per almeno tre secoli. Mi limito a ricordare gli Arlecchino del barocco Gian Domenico Ferretti. Cupi nei colori. Sensuali e tormentati nelle posture, soprattutto se raffigurati accanto alla, amata, desiderata, Colombina. Incarnazione del grande secolo della maschera e della finzione. Quando il dotto Torquato Accetto riscriveva a suo modo il Galateo cortigiano. Sospeso tra le gabbie di ferro di Riforma e Controriforma. E, significativamente, lo intitolava “Trattato della dissimulazione onesta”. Arlecchino, che cerca di sopravvivere.
E poi c’è …Picasso. Nella sua opera la figura di Arlecchino torna di frequente. Come se in quel costune variopinto e in quella maschera vedesse qualcosa che andava molto al di là della festa carnascialesca. Un simbolo, oserei dire. Anche se, qui, mi si potrebbe ribattere che Picasso non era un simbolista… Ma, sinceramente, di sigle e scuole, tanto care ai critici, non mi importa un tubo…
Guardo un quadro. In riproduzione, naturalmente, chè l’originale di trova al Metropolitan.
L”Arlecchino pensoso”. Che, in sé, è già un ossimoro. Perché Arlecchino non pensa. Agisce, in modo confuso, caotico…. per questo muove al riso.
E poi il costume a losanghe è, praticamente, monocromo. Blu, in tutte le sue sfumature.
Per forza, si dirà …. il Periodo Blu… 1901-1904 più o meno. Il suicidio dell’amico Carlos Cagemas… la depressione nervosa…
Tutto vero. Ma a me, viene in mente altro. Arlecchino ha sempre avuto la maschera di un demone triste. Che viene messa in secondo piano dal costume variopinto, dai lazzi e dalle capriole… Picasso, però, ci presenta un Arlecchino immobile. Che pensa. Un Arlecchino, figlio del caos, che osserva un mondo sempre più caotico. Dove non c’è più spazio per la follia del Carnevale. Perché il nostro mondo si avviava, già allora, ad essere un perenne Carnevale. Un Carnevale triste e squallido. Dipinto con i toni, malinconici e gelidi, del blu.