L’orso è un animale strano. Con il quale noi (cosiddetti) umani abbiamo, da sempre, un rapporto ambivalente. Ambiguo. Può darsi che questo risalga al paleolitico. Ai nostri antenati “uomini delle caverne”. Che, appunto nelle caverne sarebbero vissuti. E qui il condizionale mi sembra d’obbligo.
Perché sulla famosa preistoria si raccontano, da sempre, un mucchio di fanfaluche. Ovvero, di balle. Ipotesi, nella migliore delle ipotesi. E con ben poche prove a sostegno. Più spesso fantasie di comodo. Perché la nostra natura è pigra. Ed è più facile credere ai disegni del Sussidiario delle elementari che porsi delle domande. Cercando di conoscere.
Comunque diamo per buona la storia delle caverne. Che erano la dimora degli uomini. E anche degli orsi. Spesso, dunque, scomodi vicini di casa. Perché l’orso primitivo non doveva certo assomigliare a Yoghi e Bubu nel Parco di Yellowstone… E mangiava ben altro che i cestini da pic nic rubati ai campeggiatori…
Tuttavia, a suo favore va detto che, sulla base dei reperti ossei umani, non sembra che fosse il nostro predatore. O meglio che noi rappresentassimo il suo spuntino preferito. Come invece avveniva per lo smilodonte. E Bruce Chatwin su questo ha scritto pagine memorabili.
Sia come che sia, l’orso è parte integrante del nostro immaginario. E di quello più profondo. Basti pensare che, a lungo, i bambini usavano addormentarsi stringendo al petto il loro orsacchiotto. Che li rassicurava dai terrori notturni.
Questo e altri elementi portarono, nel ‘700, l’ eccentrico Lord Momboddo, al secolo John Burnett, a teorizzare una stretta parentela fra uomo e orso. Addirittura come due stadi evolutivi della stessa specie.
Si badi bene: Momboddo non era scappato da una clinica psichiatrica. Era un severo magistrato di Scozia, un filosofo, ed è considerato fra i padri della linguistica comparata… E poi scusate…anticipa Darwin nel concetto di evoluzione. Certo, meno scientifico. Però sinceramente mi sentirei meglio ad essere cugino di un Grizzly, che di un babbuino o di un Macaco. Questione di gusti…
L’orso rappresenta da sempre la forza. Ma una forza che viene dalla solitudine. Il Berseker germanico, che combatteva vestendo pelle d’orso, rugliando, con la bava alla bocca, incuteva un terrore indicibile nel nemico. Scatenava il panico, mettendone in rotta le fila. Eppure era solo. Perché l’orso vive, combatte e muore da solo.
All’opposto del lupo. Che rappresenta il branco. La vita in comunità. La solidarietà del clan.
E, in fondo, sono i due animali totemici per eccellenza. Rappresentano i due volti della nostra cultura originaria. Il branco e il solitario. I lupi e l’orso.
La solitudine dell’orso è proverbiale come lo è la sua forza. Non, però, la sua ferocia. Si dice feroce come una tigre. Non come un orso.
Appare lento. Pigro. Però se disturbato, o peggio provocato e aggredito, reagisce con una violenza devastante. Può, da solo, fare a pezzi un branco di lupi. Restando, magari, ferito a morte. Ma non conta. Avrebbe preferito starsene in letargo. Ma, una volta destato… Non ce n’è più per nessuno….
Non si scherza con l’orso. Non è prudente. Non è, soprattutto, intelligente. Va lasciato tranquillo. Nella sua grotta. Nel profondo della sua foresta. Quando da lì esce, o meglio viene stanato, tutto diventa imprevedibile.
In un film che amo in modo particolare, “Il vento e il leone” di John Milius – che qualcuno ha definito un regista “fascista zen” – vi è una scena in cui il Presidente Theodor Roosevelt – che ha il volto di Brian Keith – contempla un grande orso delle montagne rocciose. Impagliato.
Lo contempla e dice: “avrebbe dovuto essere lui il nostro simbolo. Non questa specie di avvoltoio che fingiamo sia un’aquila”.
Appunto….