“Sto facendo una torta – mi dice al telefono un’amica – una torta nuova, per me. Di riso. Mai fatta. Ma un’amica di mia sorella mi ha passato la ricetta…”
E subito, senza preavviso, sento il sapore che aveva la torta di riso che faceva mia madre. Era una torta semplice. Con un vago profumo di cannella. Morbida. Si scioglieva in bocca come una crema, anche se era una torta asciutta. Perfetta per la colazione del mattino. Da accompagnare il tè. O il tradizionale caffelatte.
Perché, un tempo, le torte si facevano, per lo più in casa. Non le si comprava in pasticceria, se non in rare occasioni. E allora, per qualche festa importante, il compleanno soprattutto, si prendevano quei dolci che erano troppo complessi da preparare in cucina, che richiedevano strumenti, forni e perizia da pasticceri professionali. Il millefoglie alla crema. O, ricordo, la torta al croccantino, che mio padre andava a prendere da M., in via Piave. La pasticcera più rinomata della città.
Però le torte, per lo più, venivano impastate nelle cucine di casa. E cotte nei vecchi forni a gas. O, prima ancora, in quelli a legna, delle cucine economiche. Come si faceva ancora nella casa dei nonni. Che era una casetta con un, piccolo, giardino. In una frazione, al tempo, considerata ancora campagna. Giustamente, perché vi erano ancora stalle con animali. E un po’ tutti tenevano un piccolo pollaio nel cortile. Abitudine che, per altro, aveva salvato dalla fame durante la guerra. Guerra che era finita, ma da appena una quindicina d’anni, e il ricordo restava ancora vivo.
Comunque, lì, la cucina era economica. E su quella la bisnonna preparava le sue torte. La bisnonna Bina, diminutivo di Cherubina, nome antico. Come era antica lei, in fondo. Donna che veniva dal secolo precedente, e che ti raccontava storie sentite dalle sue, vecchie, zie quando era ancora bambina. E dove si parlava di gendarmi che vestivano ancora le divise e le insegne dell’imperial-regio governo…
La Bina visse molto a lungo. E da vecchia autoritaria qual era, in cucina comandò sempre lei. Era il suo territorio. Figlia e nipoti, fra cui mia madre, potevano aiutare e guardare. Ma i piatti importanti li preparava e cucinava lei. E non c’era da discutere.
Anche perché era una grande cuoca. Una cuoca vera. Professionale. Ed era stata tale per buona parte della sua vita. Cuoca non da trattoria o ristorante, che le sembrava cosa poco dignitosa. Ma al servizio di una grande famiglia nobile. Che a quel tempo esistevano ancora. E proprio lì aveva conosciuto il bisnonno, che era il maggiordomo e giardiniere…
Era una cuoca straordinaria in tutto. Ricordo ancora il sapore dei tortelli che preparava per Natale. Col ripieno di arrosto ed erbette. Affogati nel burro e parmigiano. O del brasato nel vino. Con il purè fatto con le patate coltivate nel suo orto. E lo stufato con le carote…
Ma il suo orgoglio erano soprattutto i dolci. Faceva uno strudel di mele fantastico. Molto personale e rivisitato, si direbbe oggi, visto che nella farcitura metteva, tra gli altri ingredienti, anche dei cubetti di cacao amaro, che si sposavano meravigliosamente con il gusto, più dolce, della cannella. E, naturalmente, con le mele.
Già, le mele. Un tempo erano un elemento fondamentale per le torte. Anche perché era il frutto più disponibile. E meno costoso. E poi si prestano ad una molteplicità di diverse preparazioni. Ed ogni qualità di mela ha delle specifiche caratteristiche. E può venire usata in diverse preparazioni. Per inciso, solo in Italia di tipi diversi di mele sembra che se ne conoscano circa 2000. Immaginate i possibili impieghi.. Quando, naturalmente, in cucina vi era fantasia. E non si riduceva tutto ad una “apple pie” sulla falsariga di McDonald’s…
La Bina, da buona montanara dell’Insubria, le mele le usava molto. E non solo per i dolci, ché ci farciva anche l’oca o altri arrosti. E ci faceva una purea per accompagnare il maiale…
Però il suo orgoglio era una torta a base di mele. La chiamava il Dolce Roma. E nessuno ha mai saputo da chi l’avesse imparata a fare. O se fosse una sua invenzione.
Mele detorsolate e caramellate con zucchero e vino bianco. Poi in una teglia, completamente ricoperte da crema pasticcera. E passate al forno.
Quando veniva servito, freddo, venivano tagliati dei cubi perfetti di crema, dentro ad ognuno dei quali c’era una mela, ripiena anch’essa di crema. Uno spettacolo per gli occhi. E una delizia per il palato…
La Bina ne era particolarmente orgogliosa, perché quando era cuoca, venne ospite a cena, della famiglia nobile cui accennavo, Francesco Giuseppe. Proprio lui, l’imperatore d’Austria Ungheria. E dopo la cena aveva fatto chiamare la bisnonna nel salone da pranzo. Le aveva fatto i complimenti, e le aveva chiesto la ricetta del Dolce Roma. Per farla avere al suo cuoco. A Vienna.
La bisnonna raccontava sempre questa storia con emozione. Era stato il grande avvenimento della sua vita.
Figuriamoci…. L’imperatore in persona. E non le importava che questo facesse sempre arrabbiare il bisnonno Francesco. Che contro i “todeschi” aveva combattuto sull’Isonzo, e ne portava ancora el ricordo nella carne…
Quello era l’Imperatore. Aveva mangiato la sua torta. E le aveva fatto e complimenti. Punto.
Ah. Breve chiosa. Non chiedetemi la ricetta del Dolce Roma. Ho provato varie volte, inutilmente, sulla scorta dei ricordi di mia madre. Che sapeva farlo, ma, credo, solo perché aveva visto la Bina che lo preparava. Per certe cose non ci sono ricette…