In fondo, molto in fondo, la mia formazione è stata influenzata soprattutto dallo studio della Storia. O meglio, delle storie, come da tempo preferisco dire e scrivere. E come dicevano gli antichi. Erodoto, Tacito… Perché le storie sono storie di uomini. Coi loro vizi e le loro virtù. E raccontano vite, non astrazioni teoriche buone solo per accademici. E ideologi attardati.
Detto questo, una precisazione che ormai è una fissa, veniamo al tema. Il mio modo di guardare agli avvenimenti è, inevitabilmente, condizionato da questa prospettiva, anzi passione per le storie passate. Che diventano in sostanza le lenti con cui leggere il presente. Che, forse, non aiutano a risolvere i problemi – e su questo temo che Guicciardini avesse ragione, e Machiavelli torto – ma che, per lo meno, ti permettono di capire. Con un minimo di distacco. Che, in certe circostanze, è già molto.

Dunque… prendiamo questa storia della pandemia. Del Covid o come preferite chiamarla. Se ci ragiono in termini, diciamo così, “storici”, non posso non notare che non è affatto cosa nuova. Anzi.
Senza andare indietro alle grandi pestilenze narrate dal Boccaccio e dal Manzoni, e senza neppure risalire alla famosa Spagnola del 1918 – ovvero pandemie vere che provocarono milioni di morti – mi viene in mente che, solo nella seconda metà del novecento ce ne sono state almeno due. Che hanno fatto ben più danni di questa di cui stiamo parlando ossessivamente da oltre un anno.
Di queste, una, la più grave, l’ho sfiorata, ma non ne ho memoria. Perché nacqui proprio in quel periodo. Era la famosa Asiatica, di cui, a lungo, si è continuato a parlare. La seconda, denominata tanto Hong Kong quanto Spaziale – forse per non dare sempre la colpa ai cinesi, che col Libretto di Mao, stavano diventando di moda – a quanto ricordo me la sono pure beccata. Senza gravi conseguenze, un paio di settimane a casa, un febbrone, dieta liquida. E aspirina.
Comunque, al di là di memorie personali, in entrambe queste pandemie non vi furono né scene di panico, né limitazioni delle libertà. Non vi furono Comitati tecnico scientifici, dittature mascherate da DPCM, mascherine, distanziamenti ed altre balle… Qualcuno, certo, moriva. Anzi, ben più di qualcuno. Ma veniva considerata nella natura delle cose. E qualcosa come undici milioni di italiani finì a letto con la febbre. Malati. Non asintomatici, ché mica c’erano i tamponi e le ossessioni dei bollettini della, cosiddetta, Protezione Civile. Si continuava ad andare al lavoro, a scuola, a fare politica a frequentare le osterie e, chi poteva, trattorie, ristoranti, cinema, teatri… Tutto normale, insomma. La malattia, la febbre facevano parte della vita. Come, d’altro canto, la morte. Che non piaceva a nessuno neppure allora, sia chiaro. Solo che si sapeva che, prima o poi, la campana avrebbe suonato. E poco contava se per un virus pandemico, per un incidente di caccia, o per qualche altro canchero. Non piaceva l’ idea ma, appunto, non si rinunciava a vivere per paura di morire.

Il fatto è che diversi erano gli uomini. Quando esplose l’Asiatica – mi limito a questa per non esser troppo verboso – si era tra il ’56 e il’ 57. Gli uomini, per lo più si erano fatti la Seconda Guerra Mondiale. Con appendice, in Italia, di una guerra civile che era stata anche peggio. Ed erano ancora in giro molti che avevano passato la Prima. Trincee del Carso, Altopiano, battaglie dell’Isonzo, Caporetto, il Piave… roba così insomma. Con, in appendice, la Spagnola. 50 milioni di morti nel mondo, uno solo in Italia.
Ma diversi erano gli uomini. Quegli italiani che ci ha raccontato, come nessun altro, Guareschi. Nel suo Mondo Piccolo, il ciclo di don Camillo e Peppone. Che scrisse, per lo più, a cavallo di quegli anni. Anche se, Guareschi, di epidemie, virus, e minacce pandemeche non parla. Mai. I suoi personaggi, quando hanno la febbre, si infilano in una tinozza di acqua bollente – il bagno in casa era ancora lusso per pochi, per cittadini – tracannanno una bottiglia di grappa, e poi a letto, a sudare e dormire. Perché l’influenza, allora, era l’influenza. E si curava così…
Ma ve lo vedete voi Peppone, il sindaco comunista, che gira con la mascherina perché glielo ha detto un virologo? O lo Smilzo, il Brusco, il Bigio che rispettano i distanziamenti stabiliti dal governo? Ma quelli se ne andavano in osteria, a giocare a carte, bevendo lambrusco. O alla Casa del Popolo, in riunioni affollate, in mezzo ad una nebbia di fumo di toscani. E se i carabinieri avessero cercato di impedirlo, per evitare assembramenti, sarebbero volate sedie e legnate. Ci sarebbe stato il concreto rischio della “seconda ondata”…

E don Camillo? Ve lo immaginate a dare l’Eucarestia con i guanti di lattice? A magnificare il salvifico vaccino dal pulpito, e a permettere vaccinazioni sul sagrato della Chiesa la Domenica di Pasqua? Ma lui sarebbe andato per le case a confortare i malati, e, senza mascherina, avrebbe dato l’unzione ai vecchi, tenendo loro la mano mentre spiravano… E se qualcuno, forza pubblica, Vescovo o Papa, avesse provato a vietargli di dir pubblica Messa a Natale, lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo. Era ben capace di sollevare una grossa panca e lanciarla. Con precisione.
La gente di quel Mondo Piccolo soffriva e gioiva. Lottava ogni giorno per la vita. Affrontava disgrazie e morte. Viveva, in sostanza. Con passione sanguigna. Erano italiani. Quelli che hanno ricostruito il Paese dopo il disastro della guerra. Lavorando, stentando. Lottando e accapigliandosi fra loro. Non c’era un governo che potesse renderli schiavi con la minaccia di una, astratta, paura.
Non erano un popolo vecchio. Facevano figli. E pensavano, penavano per il loro avvenire. Non aspettavano concessioni. Erano, interiormente, liberi, qualunque fosse il regime. E la libertà se la prendevano.
Altri uomini. Altri fusti… Come questo popolo di pecore pavide, di tremebondi pensionati, di statali in smarthwarking, di giovani smidollati possa esser disceso da loro, resta, per me, un mistero…