Ho sempre nutrito una spiccata simpatia per quella corrente culturale degli anni ’20 che va sotto il nome di Strapaese. Chissà, forse proprio per il suo essere, in certo qual modo, scanzonata, per il non atteggiarsi ad alcuna spocchia intellettuale. Per il gusto di parlare e scrivere così come si mangia, senza tanti fronzoli, elucubrazioni, onanismi mentali…
D’altro canto, in fondo, Strapaese era nato non in un raffinato salotto intellettuale, ma in una bottega di Vinattiere di Colle Val d’Elsa. Perché questo era l’Angiolo Bencini che volle e finanziò la nascita de “Il Selvaggio”. Un commerciante di vini. E il Ras delle squadre fasciste del posto. Quelle squadracce toscane, celebre la Disperata, che avevano fatto la Marcia menando le mani e conquistando paese su paese da lì a Roma. Ma che nel ’24, si sentivano ormai alquanto deluse, se non tradite da ciò che i Fasci stavano diventando, cristallizzandosi in regime. E chi volesse saperne di più vada a leggersi quel capolavoro dimenticato che è “Il soldato postumo” dell’ancor più dimenticato Marcello Gallian. Un grande. Uno degli oblii più gravi e colpevoli della nostra cultura.
E magari si procuri anche le sapide “Memorie di uno squadrista toscano” di Mario Piazzesi. Che tutto era, tranne che un letterato. Un diario che, però, cadde in mano a Renzo de Felice, che lo volle far pubblicare.
Questo solo per farsi un’idea del mondo da dove emerse, prepotente e un poco becera, la cultura di Strapaese.
Poi naturalmente il Bencini chiamò alla direzione del suo fogliaccio Mino Maccari. E da lì vennero Leo Longanesi – il ” carciofino sott’odio” come ebbe a definirsi – con il suo “L’italiano”. E Malaparte, toscano maledetto, arciitaliano nei pregi e nei difetti… come solo un tedesco poteva davvero essere..
E poi Soffici. Ardengo, il Lemmonio Boreo svelto di penna come di mano. L’amico, negli anni di Parigi, di Apollinare e Picasso, dell’Ungaretti anarchico e interventistista… poi del maledetto Dino Campana, con il suo orfismo delirante e terragno.
Soffici che si portava già sul groppone gli anni di Lacerba. La rissa con Marinetti e Boccioni. L’eresia tutta dantesca e plebea – come gli straordinari Sonetti del suo sodale Papini – nel corpo vivo dell’eresia titanica e modernista del primo Futurismo.
Una stagione straordinaria. Unica. Dove tutto – le tormentate grafiche di Maccari, il lirismo decomposto quasi chimicamente di Soffici, la prosa mossa e fastosa di Malaparte, l’acre ironia di Longanesi – mirava , in fondo, ad un obiettivo. Far riemergere l’anima popolare, più autentica e rustica, ancorché rozza, del popolo italiano. Che non è mai stata elegante e raffinata. E, in fondo, neppure un qualcosa di unitario e coerente. Bella sì, però. Chè la bellezza ne è parte e fondamento. Una bellezza profonda, però. Non un’estetica formale e, a ben vedere, superficiale. È la differenza che intercorre fra Michelangelo e Rodin. Fra la Venere di Botticelli e l’Odalisca di Ingres…
È un’animaccia becera e indisciplinata. Coraggiosa. Ma il coraggio di Ghino de Tacco e del Passatore. Briganti. Come , in fondo, era anche Garibaldi, non a caso il nostro eroe nazionale per antonomasia.
Cavalleresca. Ma la cavalleria non del Baiardo, quella di Ettore Fieramosca e Fanfulla da Lodi. Mercenari. E orgogliosi di esser tali.
È la poesia del Dante di Malebolge, e di Cecco Angiolieri. Della risata grassa di Pietro l’Aretino, e della Commedia dell’arte….
Insomma è quell’italiano che già allora era divenuto merce rara. E che Maccari & Co. pensavano di poter ridestare usando il Fascismo come strumento. Andò diversamente. Ma fu, pur sempre, un gran bel tentativo.
Perché parlarne ora? Beh, guardatevi intirno. Questo, in fondo, è un becero e rozzo, epitaffio per chi ormai non c’è più…